L’antropologo calabrese Vito Teti ha fatto del tema della restanza una pietra miliare: l’idea di chi lavora in periferia, chi lavora nei territori estremi che vive la scissione fra la voglia di restare in quel territorio perché è affezionato, perché sente le sue radici, perché non ha voglia di lasciarlo e al contempo la voglia di farlo evolvere completamente, perché i territori periferici sono territori dove non ci sono servizi, c’è improvvisazione, mancanza di prospettiva. Cesare Pavese ha detto la stessa cosa in maniera meravigliosa: «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Ma quando invece tutti andiamo via, cosa resta di questi paesi? È questa la riflessione che ha spinto Pasquale Bonsignore a invitare alcuni intellettuali e professionisti nella sua Sicilia, a dialogare per capire come far tornare i territori periferici luoghi vivi e vitali, in modo che l’Italia rimanga varia e ricca, biodiversa e multiculturale perché non tutti siano costretti a desiderare di essere nei centri nevralgici e anche le zone svantaggiate perché periferiche mantengano o costruiscano reti sociali, territoriali, agricole e culturali.
Come ha sottolineato Luca Martinelli, che oggi presidia da giornalista e scrittore l’Alta Valmarecchia: «Tanti lavorano o hanno lavorato in un luogo che non è quello in cui sono nati, sono rientrati magari nel posto in cui sono nati e ci sono tornati portando un bagaglio probabilmente ben diverso da quello con cui erano partiti e probabilmente anche riuscendo ad arricchire il contesto locale e magari anche a capirne alcune distorsioni e provare su quelle distorsioni a lavorare insieme alle comunità».
Così ha fatto Riccardo Felicetti, alla guida di un centenario pastificio sulle Dolomiti, altro luogo intenso e complesso: «Vai, impari, torni e cerchi di mettere a frutto queste cose, di presidiare un territorio con paradigmi diversi da quelli che erano quelli classici. La cosa che io mi trovo oggi a dover affrontare è riuscire a motivare la prossima generazione ad agire nella stessa identica maniera o in maniere simili, declinate su quelle che sono la loro età, le loro abitudini e la loro relazione nel bilanciamento tra lavoro e vita privata. Inoltre, a prescindere dalla scelta, dalla volontà di rimanere su un territorio e di presidiarlo, probabilmente devono cambiare le attitudini e la modalità con le quali arrivarci, perché altrimenti si rischia di diventare soltanto degli assistiti e di non seguire il mercato. Il mercato è mondiale, quindi noi che vediamo il micro dobbiamo pensare però in maniera un po’ più ampia. Non è soltanto il mondo dell’agricoltura che si ribalta, ma anche quello del turismo: quando ero un ragazzo, in Val di Fiemme cadevano due metri di neve e da novembre a aprile si viaggiava con la neve per strada e c’erano gli impianti a mille metri d’altitudine. Oggi quegli impianti di risalita non ci sono più, oggi tutte le attività economiche e commerciali che vivevano di quegli impianti hanno dovuto riconvertirsi e questo è sempre avvenuto. L’unica grande differenza che notiamo oggi è la rapidità con la quale questi cambiamenti devono essere decisi e messi in atto».
È successa la stessa cosa a Mateja Gravner nella sua Oslavia, territorio periferico e di confine, che ha bisogno di nuova linfa ma spesso è ostile al cambiamento: «Bisogna che anche noi ci diamo da fare, mettendo in piedi delle situazioni che possano funzionare, che cominciano a esserci grazie ai tanti che tornano, che hanno avuto esperienze diverse e che sono riusciti poi ad adattare, mediando. Perché molto spesso si tratta di tantissime mediazioni: tra quello che il territorio già ha, chi sul territorio c’è sempre stato e non se ne vuole andare, a volte anche perpetuando dei sistemi che non funzionano, che non sono più attuali, e tra chi invece vorrebbe investire qualcosa che ha visto funzionare in altri posti ma non è necessariamente detto che possa farlo automaticamente. A volte la distanza è molto chiara, molto spesso non la vediamo perché ci riteniamo comunque figli di quei posti e quindi fa male non vedersi accettati, perché torni a casa convinto di aver imparato chissà che cosa, vedendo il potenziale, magari stravedendo e quindi dandogli molto più valore di quello che potrebbe avere, ma secondo me è necessaria una mediazione, una transizione, un interpretariato che a volte va in porto e molte volte no».
E come si garantisce la mediazione? Con la conoscenza, e lo scambio, proprio come ha fatto il ricercatore del CREA Giampiero Mazzocchi: «Io sono un ricercatore al CREA, un istituto di ricerca sull’agricoltura, mi occupo di politiche agricole e siamo l’organo che alimenta la parte scientifica del ministero dell’agricoltura, cioè indica al ministero dell’agricoltura qual è lo stato di fatto dell’agricoltura, delle aree rurali e dello sviluppo rurale in genere. Da quando faccio questo lavoro mi sono reso conto che chi scrive le politiche purtroppo ha una percezione della realtà totalmente distorta e sbagliata, completamente errata, perché c’è una narrazione assolutamente edulcorata del made in italy, c’è una narrazione del prodotto di qualità assolutamente facilitata, banalizzata, che in realtà va a detrimento di chi fa agricoltura vera, produttiva di un certo tipo. Mi sono voluto togliere da questa situazione, ho preso le mie ferie e le ho utilizzate per girare l’Italia in bicicletta, andando a trovare i contadini, le contadine, passare il tempo con loro lavorando a fianco a loro nei campi, dormendo con loro, mangiando con loro. Questa cosa mi ha dato la possibilità di arrivare effettivamente a una percezione sicuramente puntuale, cioè questo lavoro non pretende di essere universale, di raccontare l’intera realtà, ma sicuramente di capire quali sono le storie, le motivazioni, le difficoltà, a volte anche le tragedie, ma anche la bellezza che sta dietro chi sceglie di fare un certo tipo di agricoltura, che io chiamo agricoltura contadina, quella che fa un utilizzo oculato delle risorse, quella che ha una percezione diretta del campo su cui sta lavorando, una percezione diretta del cibo che si produce, dove sta andando, chi sfamerà, un controllo sul prezzo, è un’agricoltura che quindi in qualche modo abbraccia con tutti i sensi il proprio agire. Quello che io mi auspico è che la classe dirigenziale politica si compri delle scarpe più adatte per camminare sulla terra, nel senso che oggi io vedo che c’è un distacco totale da parte di alcuni ambienti, che non hanno più la capacità di saper parlare con gli agricoltori».
Questo ruolo di interfaccia e di tramite è la missione di Pasquale Bonsignore, founder di Incuso, una realtà che da sempre si muove in questo senso e che ha fatto della “restanza” un valore fondativo: «C’è bisogno di una serie di corpi intermedi che abbiano la capacità di andare a bussare alle porte giuste, sapersi interfacciare con il mondo politico, ma saper poi anche tradurre la complessità dell’istituzione nel mondo contadino, dove a volte, forse anche per indolenza degli agricoltori, non ci si va a confrontare con quello che è il mondo fuori dal campo. Io molto spesso mi confronto con persone che sono convinte che portare un frutto a maturazione sull’albero sia sufficiente, e invece siamo al primo anello di una catena eccezionalmente più complessa, che poi porta il vino, la pasta, l’olio e qualsiasi altro prodotto nelle case delle persone, nelle cucine dei ristoranti. Noi abbiamo dato a questa cosa il nome di progettazione».
Progettazione che porta con sé anche una scelta diversa da fare nella ristorazione, come sottolinea il ristoratore Juri Chiotti di Reis, cibo libero di montagna: «Vogliamo partire nel concreto a dirci delle cose concrete e fare delle azioni? Vogliamo dirci che non ha più senso che i ristoratori non percepiscano quale ruolo sociale hanno? Non possiamo pretendere di mangiare qualsiasi cosa che vogliamo ovunque. Il pesce, per me, dovrebbe essere mangiato a dieci chilometri dalla costa, stop. Una volta tutto era fatto senza una scienza, senza una conoscenza tecnica approfondita, cosa che invece abbiamo oggi. Dobbiamo solo da fare uno più uno: è vincente l’idea di restituire valore a quegli elementi che sono caratteristici di un contesto territoriale per certi versi considerato marginale».
E infine c’è il tema delle donne e delle minoranze in genere, che possono essere considerate marginali, esattamente come i territori. La riflessione dell’attivista Claudia Fauzia allarga ulteriormente il campo: «In questi anni di attivismo, di ricerca e di divulgazione, mi sono resa conto che facciamo fatica a fare due cose, essenzialmente, perlomeno nell’ambiente femminista: a sapere chi siamo e a sapere cosa vogliamo, cosa vogliamo dal nostro territorio, dalla politica, da noi stessi. Il problema di sapere chi siamo deriva dal fatto che è molto faticoso tramandare memoria. Noi abbiamo una memoria molto corta, in realtà, in confronto all’età dell’umanità, perché sappiamo quello che ci hanno tramandato al massimo i nostri nonni e le nostre nonne, però difficilmente riusciamo ad avere conoscenza diretta di quello che c’è stato prima. E il tema è identico sul fronte territoriale: per guardare al futuro dobbiamo cominciare a creare delle alleanze fra chi in questi posti non ci sta più tanto bene e chi ha qualcosa per cui lottare. E si concretizza in quello che viene definito territorio-corpo, quindi è il corpo fisico delle persone ma il corpo politico della società che si fa territorio. Non c’è più neanche questa distinzione fra essere umano e natura, fra mente e corpo. Possiamo riuscire a concepirci come un’unica cosa e forse a rimetterci dentro l’ecosistema che regola questo pianeta».
Ma la restanza è anche di chi decide di vivere in un luogo marginale e lo fa scelta, e non per appartenenza, come Romain Cole: «Io sono parigino, ho vissuto quarant’anni a Parigi e sono andato a vivere sull’Etna perché ho due bambini e c’è questa parola africana, che dice che ci vuole un paese per educare e fare crescere un bambino. A Parigi non avevo questo sentimento che è la condivisione dell’educazione con gli altri. E quando sono arrivato sull’Etna, ho trovato gente molto accogliente con noi, mi dicevano che io vedevo qualcosa in questo territorio che loro non vedevano più per avere una vita migliore. Nel frattempo tutti i giardini sono abbandonati, le case sono vuote. Noi abbiamo avuto la fortuna che a un certo punto un vecchietto voleva vendere la sua vigna bellissima, che è più un giardino, in francese c’è questo termine jardin vevrier, che sono i giardini dei lavoratori nelle fabbriche, e nelle fabbriche c’erano questi piccoli giardini condivisi, e facevano l’orto e la frutta. Noi abbiamo trovato questa vigna, che è una vigna vecchia, ci sono tanti alberi di olivi, ma ci sono anche alberi di mele, di pere, di noce, di nocciole, di mandorle, cachi, pesche: per me era veramente un giardino di Eden, e io volevo fare questo, volevo una vigna così, sognavo una vigna così. Quando l’ho vista mi sono sentito molto fortunato, e poi anche questa vigna mi ha fatto vivere con le stagioni che dobbiamo gestire, non solo la vigna, ma anche tutti questi alberi, e capire come si fa la potatura, quando si raccoglie e oggi mi sento molto legato a questa vigna, alla Sicilia, ma perché per me andare in Sicilia e per tutti i nostri amici era una cosa molto strana, che faceva paura, tutti mi chiedono perché sono venuto qui da Parigi. Per la maggior parte delle persone non ha senso. Ma io trovo che l’Etna e la Sicilia mi fanno fantasticare e questo territorio mi dà molta forza».
E se dalle esperienze di visione degli altri iniziassimo a cambiare la prospettiva e il punto di vista? È la sintesi di Luca Marinelli: «Iniziare a immaginare la Sicilia come un’isola al centro del Mediterraneo, e non come il sud dell’Italia, probabilmente ci permetterebbe anche di riflettere diversamente sul concetto di marginalità».
Come conclude lo chef Marco Ambrosino, che ha ideato Collettivo Mediterraneo: «Finché non perdiamo il rapporto punitivo dei lavori legati alla terra – di matrice religiosa – questa cosa non può cambiare. E inoltre, abbiamo costruito in questi anni, in tutti gli ambiti, soltanto dei luoghi, ma non ci siamo mai occupati di costruire delle comunità. Questa cosa delle comunità sta diventando sempre più centrata: quale orto vale di più? All’interno di una comunità ci sono delle cose che sono dei manifesti, sono dei simboli, non ha importanza quanti chili di verdure producono nell’orto in Bovisa, a Milano, ma è fondamentale che lì ci sia un monito. Poi l’orto in Bovisa in sé non servirà mai a niente, questo lo sappiamo, il giardino dietro al ristorante serve a poco, sono tutte cose che non hanno a che fare con la praticità, ma hanno molto a che fare con il messaggio».
E sulla restanza e sui margini il suo pensiero è molto chiaro, filosofico: «Noi abbiamo questo bacino enorme, che è un’insalata mista enorme di margini, di confini, che abbiamo fatto passare come un insieme di muri, e invece doveva essere un insieme di inviti a scambiarsi su quelle linee, attraversare, immischiarsi, che non significa non essere di nessun posto, significa essere orgogliosi del proprio posto per raccontarlo fuori, mentre invece oggi siamo nell’opposto: “Io sono talmente orgoglioso del mio posto che nessuno deve venire”. Noi, al contrario, dobbiamo essere aperti, non per snaturare quello che siamo, ma per allargare e continuare a migliorare questa varietà».