Contesto sfavorevoleI progetti europei sull’acciaio “verde” stanno andando peggio del previsto

Il dietrofront di ArcelorMittal è emblematico: gli acquirenti non sono disposti a pagare di più per l’acciaio “pulito” e le norme europee non offrono una protezione adeguata dalla Cina

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Negli ultimi due anni la Commissione europea ha autorizzato sovvenzioni statali da otto miliardi di euro per sostenere il passaggio a una produzione di acciaio meno emissiva. È un tema importante per il successo della transizione ecologica-industriale, considerato che il processo alla base di questa lega è difficile da decarbonizzare e che il comparto siderurgico vale grossomodo il sette per cento delle emissioni globali di CO2 (più dei trasporti aerei e marittimi messi insieme). Di questi otto miliardi di euro, tre sono andati ad ArcelorMittal, il gruppo indiano-lussemburghese che è un colosso del settore e che però ha annunciato di aver sospeso i suoi progetti sull’acciaio low-carbon nel continente.

ArcelorMittal ha spiegato di aver investito sulla produzione di acciaio green in Europa sulla base di tre fattori – una regolamentazione favorevole, prezzi dell’energia competitivi e un mercato ricettivo – che tuttavia non si sono realizzati: il gas costa tanto, l’idrogeno fatica a emergere, gli acquirenti non sono granché disposti a pagare di più per l’acciaio “pulito” e le norme europee non offrono una protezione adeguata dalla Cina.

Che cos’è l’acciaio “verde”
Quando si parla di acciaio green ci si riferisce a un ciclo produttivo che abbina un impianto di riduzione diretta del ferro a un forno elettrico ad arco, in sostituzione del tradizionale altoforno. Nel cosiddetto “ciclo integrale” in altoforno si impiega infatti il carbone coke per produrre acciaio primario a partire dal minerale ferroso. È il metodo più utilizzato a livello mondiale ma è anche molto inquinante, dato che per ottenere una tonnellata di acciaio si emettono circa due tonnellate di CO2.

Un forno elettrico emette meno di un altoforno perché, al di là delle dimensioni inferiori, è alimentato con l’elettricità. Ha una controindicazione, però: l’acciaio prodotto da un forno elettrico – che non lavora il minerale di ferro bensì il rottame ferroso – non ha la stessa qualità e quindi non è adatto a tutti gli usi; per esempio, non è adatto alle carrozzerie delle automobili. 

Questo problema si può risolvere abbinando al forno elettrico un impianto di riduzione diretta, che utilizza il gas naturale – o l’idrogeno, in prospettiva – per “lavorare” il ferro e ricavarne un materiale spugnoso adatto al passaggio nel forno elettrico. Se l’idrogeno e l’elettricità vengono ricavati entrambi da fonti pulite, la combinazione delle due tecnologie consente di produrre acciaio di qualità e green

Il forno elettrico ad arco è una tecnologia già matura: l’Italia, peraltro, è la prima elettrosiderurgia dell’Unione europea. A doversi ancora affermare è piuttosto la riduzione diretta: servirebbero grandi quantità di idrogeno che tuttavia mancano. Il settore del combustibile “verde” non riesce a partire a causa degli alti costi di produzione, da una parte, e della titubanza degli acquirenti, dall’altra.

I problemi di ArcelorMittal, Thyssenkrupp e Acciaierie d’Italia
Nel comunicato con il quale si annunciava la sospensione dei progetti di acciaio low-carbon – come quelli a Dunkerque in Francia e a Gijón in Spagna – l’amministratore delegato di ArcelorMittal, Aditya Mittal, diceva di sperare nell’introduzione di nuove politiche europee a supporto dell’industria e di misure che stimolino la domanda di prodotti decarbonizzati. 

La nota conteneva anche una critica al Cbam, il Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere: più semplicemente, si tratta di un “dazio sulla CO2” applicato sulle importazioni di merci che hanno una grossa impronta di carbonio. L’obiettivo del Cbam è quello di contrastare la concorrenza “climaticamente sleale” tra l’Unione europea e quei Paesi che non si sono dotati di piani altrettanto rigorosi per l’abbattimento delle emissioni. Ma secondo i gruppi siderurgici il Cbam – colpendo le materie prime per l’acciaio ma non i manufatti in questa lega – potrebbe svantaggiare chi produce acciaio in Europa rispetto a chi importa direttamente i prodotti finiti dall’estero.

L’altra questione sollevata da ArcelorMittal è la concorrenza cinese: le misure di protezione commerciale implementate da Bruxelles «devono essere rafforzate in risposta all’aumento delle importazioni dovuto alla sovraccapacità della Cina», ha scritto la società. La Cina è il primo Paese produttore di acciaio al mondo; ne produce talmente tanto – c’entrano i sussidi statali – che ha bisogno di riversare il surplus all’estero, creando un eccesso di offerta sui mercati che fa scendere i prezzi globali della lega e che danneggia la profittabilità delle aziende europee. Le previsioni dicono che quest’anno Pechino esporterà oltre cento milioni di tonnellate di acciaio, il massimo dal 2016.

La difficoltà a fare (quadrare) i conti con la Cina è la causa anche degli undicimila licenziamenti annunciati a fine novembre da Thyssenkrupp. «La sovraccapacità e il conseguente aumento delle importazioni a basso costo, in particolare dall’Asia, stanno mettendo a dura prova la competitività» del conglomerato tedesco, che dal 2022 ha ricevuto due miliardi di euro in aiuti per la produzione di acciaio green

In un contesto regionale e internazionale del genere, ci si chiede cosa ne sarà dei piani di rilancio di Acciaierie d’Italia, la società in amministrazione straordinaria che gestisce l’ex-Ilva di Taranto (l’unico stabilimento sul territorio italiano in grado di produrre acciaio primario). La procedura di vendita si concluderà il 10 gennaio e per ora sono giunte manifestazioni di interesse da quindici gruppi, di cui però solo tre paiono disposti ad acquisire tutti gli asset.

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