La segretaria del Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, è in Cina – si tratta della seconda visita da quando ha assunto l’incarico – per incontrare il governo e discutere della «sovraccapacità» dell’industria verde cinese. È una parola, sovraccapacità, che compare spesso nel lessico dell’amministrazione di Joe Biden: di solito sta a indicare il surplus manifatturiero di acciaio, ma in questo caso si riferisce all’eccesso di pannelli solari, batterie al litio e veicoli elettrici. Che la Casa Bianca parli di prodotti siderurgici o di “tecnologie pulite”, comunque, il responsabile di questa overcapacity che inonda i mercati globali, fa crollare i prezzi e impedisce la concorrenza è sempre lo stesso: la Cina.
È molto improbabile che il viaggio di Yellen, che durerà cinque giorni, si concluda con un accordo risolutivo delle controversie commerciali: sia perché le tensioni generali tra Washington e Pechino sono fortissime, sia perché la precedente visita della segretaria non aveva prodotto granché e sia perché la funzione di questi incontri è mantenere aperti i canali di comunicazione, prima ancora che realizzare grosse svolte. Ma soprattutto perché mancano le basi per un dialogo fruttuoso, anche a causa della nomina del nuovo inviato di Pechino per il clima, Liu Zhenmin.
Yellen è arrivata ieri a Guangzhou, polo industriale della Cina meridionale, e si sposterà a Pechino nei prossimi giorni. Incontrerà, tra gli altri, il vicepremier cinese He Lifeng, il governatore della Banca popolare cinese Pan Gongsheng e l’ex vicepremier Liu He, che oggi rappresenta le imprese americane che operano in Cina. «La mia visita sarà una continuazione del dialogo che abbiamo già avviato e approfondito. Dobbiamo avere condizioni di parità. Siamo preoccupati per i massicci investimenti in Cina in una serie di settori che si tradurranno in una sovraccapacità», ha detto la segretaria del Tesoro alla stampa.
America e Cina sono ferme su posizioni inconciliabili. Yellen accusa Pechino di trattare l’economia mondiale come un luogo di scarico per le sue merci; l’ambasciata cinese risponde che non c’è alcun eccessivo produttivo. L’amministrazione Biden sostiene che la sovraccapacità cinese ostacola i piani di reindustrializzazione green; il Partito comunista ha messo le cosiddette «nuove forze produttive» (fotovoltaico, stoccaggio, mobilità elettrica e non solo) al centro della ripresa economica e non intende frenarle.
A fine marzo Yellen ha tenuto – in una location molto significativa, peraltro – un discorso che riassume bene il pensiero del governo statunitense. La segretaria era a Norcross, in Georgia, nella fabbrica di Suniva, un’azienda americana di celle solari che nel 2017 aveva chiuso le attività per via dell’impossibilità di competere con le economiche importazioni cinesi ma che oggi ha riaperto grazie all’Inflation reduction act, la legge di stimolo alla manifattura nazionale di tecnologie pulite. Suniva è una speranza di rinascita, ma anche un monito a non ripetere gli errori del passato.
A Norcross, Yellen ha detto che la Cina, attraverso una massiccia sovrapproduzione di acciaio sussidiata dal governo, ha danneggiato l’economia globale quando – siamo nei primi anni Duemila – ha riversato questo surplus sui mercati (e soprattutto ha abbattuto la profittabilità delle società siderurgiche americane allora dominanti). L’amministrazione Biden pensa che oggi stia succedendo la stessa cosa, ma con i pannelli solari, le batterie e le auto elettriche: se i prezzi di questi prodotti collassano per effetto di un’offerta sovrabbondante, la nascente industria green americana rischia di non sopravvivere e l’agenda economica della Casa Bianca va in fumo.
Yellen è stata attenta a presentare tutto questo come un problema non soltanto americano ma internazionale, in modo da favorire un coordinamento con il resto dell’Occidente e aumentare le pressioni su Pechino. Anche l’Unione europea, del resto, ha obiettivi manifatturieri simili a quelli di Washington e gli stessi problemi di gestione della sovraccapacità cinese. L’European solar manufacturing council, l’associazione del settore fotovoltaico europeo, pensa appunto che le aziende del Vecchio continente siano «sull’orlo del baratro» perché «c’è un’enorme sovraccapacità globale e i produttori europei non possono vendere i [loro] prodotti senza subire enormi perdite. Dobbiamo affrontare la minaccia cinese».
Bruxelles sembra essere passata al contrattacco. Mercoledì, infatti, ha avviato due indagini su altrettante società cinesi coinvolte nella costruzione di un parco solare in Romania, co-finanziato con fondi comunitari. Secondo la Commissione, le due aziende – una è LONGi, campionessa mondiale del fotovoltaico, l’altra è la partecipata statale Shanghai Electric – potrebbero aver ricevuto sussidi «distorsivi del mercato». Il commissario al Mercato interno, Thierry Breton, ha dichiarato che i pannelli solari «sono diventati strategicamente importanti per l’Europa» e che dunque è necessario garantire «che le aziende del nostro mercato unico siano davvero competitive e giochino in modo pulito».
In altre parole, la decarbonizzazione del mix energetico – alla quale i pannelli cinesi hanno pur dato un contributo importante, grazie al loro basso prezzo – non può comportare un sacrificio industriale. Attualmente però l’Unione dipende in maniera pressoché totale dalla Cina per la componentistica solare, e negli ultimi mesi diverse aziende del settore hanno chiuso gli stabilimenti: la svizzera Meyer Burger, la francese Systovi, la norvegese REC.
Il tema della sovraccapacità cinese è reale. Si stima che nel 2023 la capacità produttiva di dispositivi solari del paese fosse più che doppia rispetto alla domanda globale. Secondo il think tank australiano Climate Energy Finance, nel 2024 la Cina si doterà di nuova capacità manifatturiera sufficiente a soddisfare la richiesta mondiale fino al 2032. Questo boom produttivo, incoraggiato da anni di sussidi, ha saturato il mercato domestico e fatto precipitare i prezzi, causando licenziamenti e scatenando una guerra tra aziende che terminerà probabilmente con la vittoria dei costruttori grandi e integrati su quelli piccoli e meno efficienti. Una buona parte del surplus cinese finisce in Europa, mentre gli Stati Uniti sono più riparati grazie ai dazi.
Oltre ai pannelli solari, poi, ci sono le batterie e i veicoli elettrici. La Commissione europea sta portando avanti un’inchiesta anti-sussidi anche sulle vetture provenienti dalla Cina. La presidente Ursula von der Leyen, nell’annunciare il procedimento lo scorso settembre, spiegò che «i mercati globali sono invasi da automobili elettriche cinesi a buon mercato, i cui prezzi sono mantenuti bassi artificialmente grazie a ingenti sovvenzioni statali. Queste pratiche causano distorsioni sul nostro mercato». Secondo Biden, «la Cina è determinata a dominare il futuro del mercato automobilistico, anche ricorrendo a pratiche sleali […]. Non lascerò che questo accada sotto i miei occhi». Insomma: la transizione energetica si conferma essere una questione industriale e una competizione tra Nazioni.