Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 25 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.
Ora della fine dell’anno si sarà andati alle urne, nel corso di tutto il 2024, in ben sessanta Paesi, sette dei quali sono tra i dieci più popolosi del mondo. Queste elezioni hanno messo alla prova la capacità delle democrazie di difendere i propri valori, nel contesto del crescente successo dei partiti estremisti e populisti e dei politici che li guidano Ma, quando cerca di difendere se stessa, la democrazia deve anche affrontare la sfida di provare a farlo continuando a rispettare i propri valori. Il primo di questi valori è il principio fondamentale della democrazia: il diritto di ogni cittadino di votare e di fare sentire la propria voce. Secondo gli analisti, l’ascesa dell’estrema destra sembra suggerire che i democratici liberali dovrebbero stare più attenti a non trattare con sufficienza quelli che hanno idee divergenti dalle loro e senz’altro non dovrebbero considerarli – come disse otto anni fa una spazientita Hillary Clinton – una «masnada di miserabili».
Gli studiosi hanno individuato vari diversi motivi scatenanti della sempre più diffusa disaffezione nei confronti della democrazia liberale e del suo funzionamento, e molte di queste spiegazioni hanno a che fare con la lentezza della crescita economica, con la disoccupazione (dovuta a una sempre più diffusa automazione e alla globalizzazione) e con le ansie derivate dai flussi migratori e dal mescolarsi delle etnie – fenomeni, questi ultimi, che mettono in discussione le idee tradizionali legate all’identità e al carattere nazionale.
Questa disaffezione, inoltre, è spesso alimentata da politici che fanno affermazioni false e sfruttano i pregiudizi popolari. Secondo gli analisti, la più rilevante tra le maggiori sfide che la democrazia deve affrontare è la “recessione democratica”, ovvero la tendenza delle democrazie esistenti a scivolare indietro verso un maggiore autoritarismo. Alcuni leader, che spesso sono stati eletti perché hanno promesso di introdurre delle riforme, finiscono talvolta per usare il potere che è stato loro conferito per indebolire le istituzioni democratiche e il sistema di checks and balances, ad esempio minacciando l’indipendenza della magistratura e dei media, con l’obiettivo di mantenere se stessi e i loro partiti al potere anche dopo le successive elezioni, a costo di renderle meno libere ed eque.
Secondo gli analisti, si possono osservare fenomeni di questo tipo, ad esempio, in Ungheria, in Slovacchia, in Turchia, in Messico, negli Stati Uniti e in India – democrazie consolidate che sono già scivolate indietro (o hanno quantomeno iniziato a farlo) in quello che a volte viene definito “deconsolidamento democratico”. «Non si può dare per scontato che una democrazia consolidata rimanga sempre tale», afferma in un’intervista telefonica Shashi Tharoor, deputato eletto nel Parlamento indiano ed ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite. «Le elezioni possono anche essere sostanzialmente libere ed eque, ma una volta che un governo è stato eletto non c’è poi niente che lo costringa a rispettare quelle convenzioni che tradizionalmente rendono tale una democrazia».
Tra queste, le più importanti sono la correttezza del sistema giudiziario, l’autonomia delle istituzioni, l’integrità e l’indipendenza della banca centrale e della commissione elettorale, l’indipendenza dei media e quella della magistratura. «La democrazia è un sistema che è determinato da come i governi e gli elettori si comportano tra un’elezione e l’altra», spiega Tharoor. «È infatti in quel lasso di tempo che avvengono i cambiamenti». I pericoli che la democrazia deve affrontare sono sia esterni sia interni, afferma Arancha González Laya, preside della Scuola di Affari Internazionali di Parigi a Sciences Po e già ministro degli Affari esteri della Spagna. «La democrazia sta arretrando ed è uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare», ha dichiarato González Laya in un’intervista al Forum Ambrosetti di Cernobbio. «E, quando la democrazia arretra, allora diventa più difficile prendere decisioni sulla sicurezza, sull’immigrazione e sui modi attraverso cui possiamo migliorare le nostre economie».
I pericoli provenienti dall’esterno sono costituiti dalle interferenze straniere, che sono amplificate dalla disinformazione (che da ultimo è diventata ancora più efficace a causa dell’Intelligenza Artificiale) e hanno l’obiettivo di confondere gli elettori e minare l’integrità della scelta democratica. La Russia e la Cina sono state a più riprese accusate dagli Stati Uniti e da vari Paesi europei di aver cercato di influenzare le elezioni per intaccare la correttezza della democrazia, danneggiare le alleanze internazionali e creare divisioni all’interno delle singole società.
«Come era già avvenuto durante la pandemia, queste interferenze provenienti dall’esterno promuovono anche l’idea che le autocrazie siano più efficienti e mettono in dubbio la capacità delle democrazie di garantire dei risultati concreti ai cittadini», spiega González Laya. Tra i nemici “interni” della democrazia ci sono invece le cosiddette “democrazie illiberali”, come l’Ungheria, e «quei leader politici e quei partiti che si danno da fare per eliminare i checks and balances, per indebolire le istituzioni democratiche e per prendere il controllo dei media con l’obiettivo di erodere dal di dentro la qualità della democrazia». Spesso, oltretutto, chi agisce in questo modo afferma di farlo in nome dell’efficienza e persino della democrazia stessa, «dando a intendere che ridurrà la burocrazia o impedirà che siano dei “tecnocrati non eletti” a prendere le decisioni politiche».
Un esempio recente di tutto questo è stato il tentativo da parte del presidente messicano uscente, Andrés Manuel López Obrador, e del suo partito di approvare una legge per modificare il sistema giudiziario, trasformandolo da un sistema basato su carriere e titoli a un sistema in cui gli elettori eleggerebbero i giudici tra candidati a cui sarebbe richiesto di soddisfare solo modesti requisiti. Ne conseguirebbe la rimozione di settemila magistrati dal loro posto di lavoro, a partire dal presidente della Corte suprema per arrivare fino ai giudici dei tribunali locali. Anche i “nemici interni” della democrazia stanno usando gli stessi strumenti e le stesse tecnologie già impiegate dai suoi “nemici esterni” per diffondere disinformazione, afferma González Laya.
Il loro scopo è ridurre la capacità degli elettori di riconoscere come tali le eventuali bugie che venissero loro propinate. «È diventato sempre più difficile individuarle», spiega, «perché la linea di demarcazione tra verità e menzogna sta diventando sempre più sottile». Molti suggeriscono che la causa dell’arretramento della democrazia risieda nella sua incapacità di soddisfare gli elettori con risultati concreti, oppure nella globalizzazione, o nell’aumento della disuguaglianza economica. «Ma i dati non lo confermano», afferma Laura Thornton, direttrice senior per i programmi di democrazia globale presso il McCain Institute, che ha sede a Washington e fa parte dell’Università dell’Arizona. «Io sono fra quelli che sono convinti che la causa risieda nelle divisioni culturali e valoriali, che sono determinate dal fatto che le persone vedono cambiare il loro Paese e la loro identità», spiega Thornton.
Questi cambiamenti stanno dividendo le società: da una parte ci sono quelli che sono favorevoli al multiculturalismo e alla diversità e dall’altra quelli che vogliono invece tornare «alle vecchie gerarchie» di razza, etnia, genere e religione e «che spesso vedono le donne e le minoranze come un ostacolo».
In occasione delle recenti elezioni in tre Länder tedeschi, un manifesto del movimento di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), che è stato il più votato in Turingia ed è arrivato secondo per un soffio in Sassonia e in Brandeburgo, recitava: «Heimat statt Multikulti», ovvero, suppergiù, «Patria, non multiculturalismo». E se anche le democrazie consolidate occidentali devono misurarsi con il pericolo di un arretramento, questo rischio è presente soprattutto nel cosiddetto Sud globale e tra le democrazie in via di sviluppo, sostiene Thomas Carothers, che ha studiato democratizzazione comparata presso il Carnegie Endowment for International Peace.
È importante però distinguere tra arretramento della democrazia e irrigidimento autoritario, afferma Carothers. Quest’ultimo è il fenomeno che si verifica in quei Paesi che non sono mai stati davvero democratici e che lo stanno diventando ancora meno, come ad esempio la Russia, il Venezuela, la Cambogia, l’Iran e la Bielorussia. «In realtà, nelle democrazie consolidate non si sono verificati molti arretramenti», dice Carothers.
L’Ungheria è il caso peggiore, seguita dalla Polonia, «che però ha poi cambiato direzione» da quando è diventato premier Donald Tusk, la cui alleanza centrista ha sconfitto nelle elezioni del 2023 il governo guidato da Jarosław Kaczyński, che si era dato da fare per estendere il proprio controllo sul sistema giudiziario e sui media. E anche in Bangladesh è appena stata cacciata dal potere, seppur con esiti ancora incerti, Sheikh Hasina, che ha guidato a lungo il Paese per poi trasformarsi in una autocrate. Ma il deterioramento della democrazia è stato ancora più evidente in luoghi come l’India, la Turchia, il Brasile, l’Indonesia e l’Egitto, spiega Carothers. Il caso della Serbia è meno incontrovertibile, così come quello di Israele, riguardo al quale non è ancora chiaro se il premier Benjamin Netanyahu avrà successo o meno nel suo tentativo di indebolire l’indipendenza del sistema giudiziario rendendolo soggetto al Parlamento. «In Israele il sistema democratico sta solo patendo delle serie turbolenze o sta proprio sperimentando una regressione?», si chiede Carothers.
Come Israele, anche molte altre democrazie occidentali – ad esempio, gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito e la Germania – sono state soggette a delle “turbolenze”, determinate «dall’estrema destra, dall’alienazione dei cittadini, dalla stanchezza delle élite e dal fatto che i partiti politici hanno esaurito le idee e l’energia», afferma Carothers. Ma finora i checks and balances che caratterizzano i sistemi democratici hanno quasi sempre tenuto. Anche Carothers ritiene poco convincente individuare nelle disuguaglianze economiche o nella scarsa crescita la causa della crisi della democrazia.
«Il problema è che molti Paesi sono arrivati alla democrazia solo tardivamente, negli anni Novanta. Le loro istituzioni sono ancora deboli e i cittadini eleggono dei leader rapaci e “imprenditoriali” che consolidano il loro potere mentre sono in carica e diventano poi difficili da fermare», sostiene Carothers. Anche i valori e l’identità sono importanti. «Molti europei sono turbati dagli alti tassi di immigrazione e dalla stagnazione economica e possono sentirsi minacciati da un mondo che vorrebbero tenere lontano da loro». Ma questa è una preoccupazione manifestata dai cittadini e «non rappresenta necessariamente un arretramento della democrazia», dice Carothers, anche se va considerato che questi sentimenti possono alimentare quei partiti che vogliono minare l’attuale sistema democratico. Inoltre, bisogna stare attenti a non sostenere che un qualche specifico problema europeo costituisca una tendenza globale riconducibile al populismo o all’estrema destra, afferma Carothers.
In India, ad esempio, è difficile collocare il premier Narendra Modi su una tradizionale linea sinistra/destra. E lo stesso vale per la Tunisia o anche per la Germania, dove l’AfD e un altro partito analogo, l’Alleanza Sahra Wagenknecht, mescolano nazionalismo e socialismo. In un saggio in cui racconta la sua scelta di diventare americano, Ivo Daalder, ex ambasciatore degli Stati Uniti (di origine olandese) presso la Nato e presidente del Chicago Council on Global Affairs, ha scritto: «È l’erosione della democrazia dal suo interno a rappresentare la minaccia più grave». Le vittorie dei leader autoritari «sono rese possibili dalla costante erosione delle norme, delle regole e dei diritti fondamentali che sono alla base della democrazia», ha affermato. E Arancha González Laya spiega che i tentativi di indebolire la democrazia dall’interno, che sono perseguiti da persone che conoscono bene il proprio Paese e la sua politica, sono i più difficili da affrontare.
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