Salti di specieCosa sta succedendo, in Italia e nel mondo, con l’influenza aviaria

Il virus ha cambiato completamente faccia negli ultimi trent’anni, e le scarse azioni preventive hanno favorito una serie di “spillover” che oggi preoccupano anche gli esseri umani. Ne parliamo con la virologa Ilaria Capua

AP Photo/LaPresse (ph. Terry Chea)

«Per il 2025, sul fronte malattie infettive dobbiamo guardare al problema aviaria. Il 2024 è finito nel modo peggiore, con casi umani anche impegnativi. Il virus sta mutando e non è più lo stesso visto nei bovini, ma è nuovo. Anche l’Italia deve organizzarsi con vaccini, terapie e tutto quello che chiamiamo Piano pandemico aggiornato, che ancora non c’è», a parlare è Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale policlinico San Martino di Genova, in una recente intervista all’Adnkronos Salute.

Da mesi, l’influenza aviaria sta infatti creando preoccupazioni all’interno di diversi Paesi. Oltre ai focolai che hanno riguardato allevamenti di galline e tacchini in Italia, ci sono stati contagi tra i bovini negli Usa e tra agosto e settembre il virus è arrivato in Vietnam, dove ha causato la morte di più di quaranta tigri, tre leoni e una pantera in un parco safari e in uno zoo. 

Secondo Education for Nature Vietnam, una Ong che si concentra sulla conservazione della fauna selvatica, alla fine del 2023 nel Paese vivevano in cattività un totale di trecentottantacinque tigri. Circa trecentodieci sono tenute in sedici fattorie e zoo privati, mentre le altre sono in strutture statali. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha sottolineato che dal 2022 sono aumentate le segnalazioni di epidemie mortali tra i mammiferi a causa di virus influenzali, e tra queste c’è anche l’H5N1, comunemente conosciuta come aviaria.

Una vicenda simile si era già verificata nel 2004, quando morirono e furono abbattute a causa dell’influenza aviaria decine di tigri nel più grande allevamento del mondo in Thailandia. La virologa Ilaria Capua ha spiegato a Linkiesta che «non è la prima volta che il virus colpisce le tigri, è già successo e ha colpito i grossi felini, perché erano stati nutriti con carne di pollo proveniente da allevamenti infetti, come si ipotizza sia accaduto anche in Vietnam». Alla luce di quanto successo già in precedenza, la possibilità che i felini potessero essere infettati dal virus era nota, mentre «prima degli episodi del 2004 si credeva che i felini, dai gatti alle tigri, fossero resistenti». 

Ilaria Capua (Matteo Secci/LaPresse)

I primi casi di influenza aviaria furono registrati nel diciannovesimo secolo, ma il virus H5N1, uno dei ceppi più famosi e pericolosi, venne identificato per la prima volta a Hong Kong nel 1997. L’influenza aviaria è una malattia virale che colpisce principalmente gli uccelli, infatti la prima epidemia colpì polli e anatre, causando anche i primi casi di trasmissione all’uomo, con sei morti su diciotto persone infette. Da allora, l’influenza aviaria è diventata una preoccupazione sanitaria globale. Solo in Australia non sono stati ancora individuati casi di H5N1.

Dopo il 1997, il virus H5N1 è riemerso in diverse regioni dell’Asia, diffondendosi rapidamente tra il 2003 e il 2006, ma anche in Europa, Africa e Medio Oriente e non solo tra gli uccelli domestici e selvatici. «Questo virus è un virus che negli ultimi trent’anni ha cambiato completamente faccia», sottolinea l’esperta. 

«A causa del mancato controllo, ha fatto una serie di spillover», ossia i “salti di specie”, «negli uccelli domestici e poi fra popolazioni eterogenee di uccelli selvatici. Un profano potrebbe pensare che un pollo e un tacchino siano non molto distanti dal punto di vista filogenetico dagli uccelli selvatici, quando in realtà esiste una grande differenza». Il virus ha quindi cominciato a infettare uccelli di specie differenti e nei primi anni 2000 aveva una mortalità di circa il sessanta per cento tra i casi umani, pur non avendo innescato cicli di trasmissione uomo-uomo. 

L’evoluzione dei ceppi di influenza aviaria è favorita dalla natura del virus, che tende a subire frequenti mutazioni. Questi cambiamenti genetici possono aumentare la sua capacità di infettare nuovi ospiti, incluso l’uomo. E così «l’infezione ha continuato a diffondersi dal 2000 fino a 2015 quando è arrivato nei siti di congregazione e riproduzione degli uccelli nel circolo artico, e diciamo che da lì il passo è stato breve perché in questo modo il virus è arrivato nell’altro emisfero». 

Ilaria Capua spiega infatti che «l’H5N1 era presente praticamente soltanto nel nostro emisfero fino al 2015, invece con questo volo che ha preso sulle ali degli uccelli selvatici non solo ha infettato moltissime specie di uccelli selvatici», che hanno assunto il ruolo di serbatoi naturali, «ma poi è arrivato nell’altro emisfero causando un’epidemia devastante nel pollame e negli uccelli selvatici americani».

La virologa sottolinea che «il virus per infettare una specie animale ha bisogno di “agganciarsi” da qualche parte e farlo serve il recettore giusto. Gli uccelli domestici e selvatici hanno questo recettore, che si chiama Alfa 2-3. I virus influenzali dei mammiferi invece si attaccano a un altro tipo di recettore, Alfa 2-6». Il contagio nei mammiferi è arrivato negli Usa perché «con una pressione infettante così elevata negli uccelli, ha cominciato a infettare anche qualche mammifero, come è avvenuto in Europa negli anni precedenti».

Dal 2015 in poi, continua Capua, «ci sono stati dei casi nei mustelidi che sono per esempio visoni, donnole, faine, in seguito anche le volpi e poi gli orsi, esplodendo in una quantità significativa di mammiferi selvatici. Spesso accade perché se l’uccello selvatico infetto durante la sua migrazione muore o viene predato, infetta l’animale predatore e questo ha fatto sì che durante gli ultimi due o tre anni ci sia stata una moria di animali selvatici, incluse le foche e i leoni marini»

Negli Stati Uniti, si sono verificati casi del tutto inattesi in cui sono stati colpiti i bovini, anche se il meccanismo di trasmissione rimane oggetto di studio. Secondo Capua, ci sono diverse ipotesi: «Sembrerebbe che il virus sia entrato negli allevamenti di bovini tramite un uccello selvatico, un nuovo spillover. Noi credevamo che i bovini fossero resistenti all’infezione perché non avevano recettori a cui il virus potesse legarsi nel tratto respiratorio. Abbiamo scoperto che li hanno nella mammella, quindi per ora riguarda soprattutto i bovini da latte. Dopo il primo caso questa infezione si è allargata a macchia d’olio».

Negli Stati Uniti ci sono stati diversi casi negli esseri umani, di cui nove associati all’esposizione a pollame infetto da influenza aviaria e i restanti dagli allevamenti di bovini, quindi tramite latte infetto. I sintomi sono quelli di una congiuntivite acuta e la via di esposizione più probabile per i lavoratori è rappresentata dal contatto diretto con gocce di latte infetto negli occhi. «Si stanno infettando anche gli esseri umani – aggiunge Ilaria Capua – e adesso, durante la stagione influenzale, esiste il rischio che questo virus influenzale aviario si “accoppi” con un virus influenzale umano e provochi la generazione di un virus che può anche trasmettersi in maniera più efficace da uomo a uomo». Negli Stati Uniti si sta seguendo con preoccupazione il primo caso grave all’interno del Paese: il virus ha colpito a dicembre 2024 un sessantacinquenne della Louisiana. 

Per ora, al netto del caso statunitense, sembra che si tratti di infezioni lievi e risolte in poco tempo. «È un’epidemia che riguarda una grande quantità di animali e che può essere definita panzoozia», aggiunge, «ovvero una malattia che colpisce tutti gli animali. Si tratta di malattie infettive molto rare perché colpiscono animali molto diversi l’uno dall’altro». Le organizzazioni internazionali continuano a considerare il rischio basso per la popolazione, mentre è più alto per le persone esposte, come chi lavora negli allevamenti.

Affinché la circolazione del virus venisse limitata, dovevano essere intraprese azioni efficaci molto tempo fa, quando a essere contagiati erano solo gli avicoli da allevamento. «L’abbattimento è lo strumento che è stato usato, ma non dagli allevatori di bovini. Se fossero stati abbattuti i primi focolai, non ci sarebbe più circolazione di virus», spiega. La situazione attuale, nonostante se ne stia parlando meno, pare peggiore di quella del 2006, quando il consumo di carne di pollo ebbe un crollo (del tutto ingiustificato) dovuto alla paura del contagio. «Allora si sarebbe dovuto fare un programma di controllo a livello globale che coinvolgesse tutti i Paesi, anche quelli asiatici. La disomogeneità negli approcci ci ha condotto in questa situazione», puntualizza Capua. 

Le azioni antropiche, quindi gli allevamenti intensivi, i mercati di animali vivi e zoo, giocano un ruolo nell’aumento della circolazione virale e quindi nella mutazione dei virus. Il contatto sempre più stretto tra specie animali diverse e con gli esseri umani può creare le condizioni ideali per nuove epidemie. «Sappiamo per esempio che la circolazione dell’aviaria negli allevamenti animali da pelliccia stimola la generazione di mutazioni che possono aumentare il potenziale pandemico del virus», conclude Ilaria Capua. Allo stesso modo ciò accade anche allevamenti intensivi o nei casi di animali selvatici tenuti in cattività all’interno degli zoo.

L’influenza aviaria rimane una delle principali minacce globali. Pur non avendo causato né un’epidemia, né una pandemia tra gli esseri umani, la sua capacità di infettare specie diverse fa sì che rimanga una preoccupazione costante per la salute pubblica. Lo sforzo internazionale è mirato a migliorare la prevenzione e gestione di eventuali focolai futuri, ma l’attenzione degli allevatori alla biosicurezza dovrebbe essere una costante data la capacità del virus di mutare e potenzialmente adattarsi a nuove specie.

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