Il terremoto del 2020 ha lasciato grosse cicatrici sull’immenso corpo del cimitero monumentale di Mirogoj, a Zagabria. La sua architettura è rimasta fortemente ferita e alcune zone sono chiuse o sorrette da ponteggi e impalcature. In questi giorni sto leggendo Il ritorno di Filip Latinovicz di Miroslav Krleža, uno dei più grandi scrittori jugoslavi e croati mai esistiti.
Come in una sorta di gioco, osservo l’interno del complesso figurandomelo in un libro dell’autore. Le immagini delle tombe si susseguono sotto i miei occhi, gli oggetti sono appena accennati, come fossero tratteggiati, il tempo rallenta e accelera, fermandosi su un particolare, una statua sotto un portico o alcuni fiori, lasciati accanto a una lapide chissà da chi.
Passo di fianco al grande mausoleo dedicato al padre della Croazia contemporanea, Franjo Tuđman o, meglio, il «Dottor» Franjo Tuđman, come lo chiamano da queste parti, in maniera reverenziale. Il luogo del suo eterno riposo è enorme ed è impossibile non notarlo. Mi soffermo ancora sui danni del sisma e noto quanto siano ingenti. I portici sotto le mura di cinta sono quasi tutti interdetti al passaggio ed è un vero peccato.
Dopo un lungo girovagare trovo la lapide di Krleža, che è seppellito insieme alla moglie. È umile, quasi dimessa, non posso che fare caso al contrasto fra la sua grandezza intellettuale e la modestia del luogo di eterno riposo. Voglio raggiungere un’ultima tomba: quella di Dražen Petrović, il «Mozart del canestro», il «Diavolo di Sebenico», il miglior giocatore di basket croato di sempre, senza offesa per Krešimir Ćosić o Toni Kukoč. Il cestista perse la vita nel 1993 a causa di un incidente stradale, quando un camion invase la sua corsia e colpì l’auto su cui viaggiava. Ho negli occhi la scena del film-documentario trasmesso da Espn, Once Brothers, quando l’amico di un tempo, il serbo Vlade Divac, appoggia un fiore sulla tomba di quello che era stato per lui quasi un fratello e che la guerra aveva allontanato definitivamente.
Il luogo di sepoltura è in un’altra ala del cimitero, più in alto, e per raggiungerla si passa accanto ad alcuni monumenti jugoslavi, dedicati ai partigiani e a Ivo «Lola» Ribar, eroe nazionale della lotta al fascismo. Proprio di fronte, un’opera dello scultore Dušan Džamonja ricorda i morti nella guerra di indipendenza croata. È di pietra nera, cosa che crea un forte contrasto con i monumenti bianchi del periodo jugoslavo. L’artista è lo stesso che ha realizzato alcuni dei più imponenti spomenik dell’epoca titina, come quelli di Podgarić e Kozara.
Poco distante dal Mirogoj, si trova un altro luogo centrale nella geografia della città e in qualche modo di tutto il paese. Al termine dell’omonimo parco, sorge lo stadio Maksimir, casa della Dinamo Zagabria. Probabilmente non esiste uno Stato al mondo che abbia un legame così stretto fra la propria identità nazionale e il calcio come la Croazia. La storia contemporanea si intreccia saldamente con quella del pallone, e non è un caso se la prima sfilata della neonata Guardia nazionale si tenne nel secondo stadio cittadino, il Kranjčevićeva.
Fu il celeberrimo calcio di Zvonimir Boban, centrocampista croato che avrebbe brillato anche a Milano, sponda rossonera, a costituire uno dei miti fondativi della giovane nazione. Davanti al Maksimir è posta una targa che scolpisce nella pietra questo legame, ricordando come quel 13 maggio 1990 è considerato, dai croati, l’inizio della «guerra per la patria», la Domovinski rat. Storiograficamente non andò proprio così e prima che le parole lasciassero il campo alle armi passarono diversi mesi.
Quel giorno si dovevano affrontare i padroni di casa della Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado, che viveva in quegli anni uno dei suoi migliori momenti storici. La partita fu caricata di mille significati. Ad esempio, si erano da poco svolte le prime elezioni multipartitiche e la formazione nazionalista di Tuđman aveva appena conquistato la maggioranza. I tifosi della Stella Rossa, guidati da Zeljko “Arkan” Ražnatović, marciarono sullo stadio con fare militare, cercando in tutti i modi lo scontro con quelli della Dinamo, Delije contro Bad Blue Boys, due gruppi nati da poco, ma già all’apice nella scena ultras del paese.
La partita non si giocò mai. Scoppiò il caos, gli scontri furono cruenti e pare che la polizia non si dimostrò imparziale, ma si accanì maggiormente con i croati, tanto da generare la famosa reazione di Boban, che colpì un poliziotto che poi sarebbe venuto fuori essere bosniaco. Lo rincorse e gli arrivò alle spalle, senza che l’agente potesse vederlo, fratturandogli la mandibola.
Questo gesto non ebbe ripercussioni “civili” su Boban, ma calcisticamente venne squalificato per diversi mesi, e ciò gli precluse la possibilità di partecipare al Mondiale di Italia ’90 (al tempo, però, il centrocampista aveva indossato solo tre volte la maglia della nazionale maggiore, per un totale di tredici minuti, quindi una sua convocazione non era assolutamente scontata).
Quello di quel giorno è uno di quegli eventi che diventano storici e poi vengono colorati di leggende più o meno vere. Come il fatto che i tifosi della Stella Rossa sostituirono le targhe delle auto intorno allo stadio. Gli zagabresi furiosi si accanirono sulle macchine dei propri concittadini, vedendo la targa belgradese e pensandole serbe.
Quello che è certo è che non fu l’unico evento calcistico significativo nella formazione di uno spirito nazionale croato. Lo fu anche la partita della Jugoslavia contro l’Olanda, giocata proprio al Maksimir, quando i tifosi di casa fischiarono la propria nazionale. Oppure l’incontro dell’ottobre del 1990 contro gli Stati Uniti, arbitrato dal signor Coppetelli di Tivoli, che è ritenuto la prima gara della Croazia, ancor prima dell’ufficiale indipendenza.
Tuttavia, un errore che si fa spesso è considerare quei mesi come qualcosa di monolitico, senza sfumature, dove tutto era già deciso. Non è così. Lo stesso Boban, che oggi è un simbolo nazionale per il suo paese, solo tre anni prima esultava e sventolava la bandiera jugoslava nei Mondiali Under 20 in Cile.
E uno dei capi dei Bad Blue Boys, intervistato a ridosso del Mondiale italiano nel documentario jugoslavo sul tifo Umesto top liste, afferma di odiare i serbi, ma che a Italia ‘90 tiferà «naturalmente per la Jugoslavia». Gli eventi ebbero una loro evoluzione e oggi appaiono come il frutto di un percorso lineare e senza intoppi, ma non è così, non è corretto leggerli con il senno di poi. Ci furono indecisioni, ci fu confusione, ci furono infinite possibilità, che restarono tali solo sulla carta.
Tratto da “Balkan football club” (Bottega Errante) di Gianni Galleri, pp.171, 19,00€