Eden, Soul and GodI fattori Esg della spiritualità, e la nuova consapevolezza ecologica delle religioni

Come scrivono Massimo Lapucci e Stefano Lucchini in “Ritrovare l’umano” (Baldini+Castoldi), l’impegno per la sostenibilità ambientale sta emergendo come valore condiviso nelle principali fedi del mondo. Questa convergenza spirituale ci fa capire che la crisi ambientale non è solo una questione politica, ma anche una crisi morale

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Su un principio sono tutti d’accordo: gli esseri viventi sono connessi, nel bene e nel male, ai rispettivi ecosistemi. Lo sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui questo legame sarà sempre più stretto a causa dell’accresciuta antropizzazione e dell’innalzamento della temperatura; fattori che, abbinati, favoriscono la diffusione di malattie trasmesse dagli animali. Lo certificano studi e statistiche, come quello condotto dalla Fondazione Veronesi, che – e il mercato del pesce di Wuhan insegna – ha accertato che su dieci malattie infettive emergenti ben sei arrivano da animali, sia domestici che selvatici; e che negli ultimi trent’anni, il settantacinque per cento di nuovi patogeni hanno avuto origine dagli animali. Ma anche tra chi pensa che il corpo non sia che il packaging dell’anima, soprattutto in questi ultimi decenni, sta emergendo una visione che, se non proprio in contraddizione con il passato, è sempre più adeguata ai tempi.

Nella enciclica Laudato si’, Papa Francesco afferma, per esempio, che «gli ecosistemi intervengono nel sequestro dell’anidride carbonica, nella purificazione dell’acqua, nel contrasto di malattie e infestazioni, nella composizione del suolo, nella decomposizione dei rifiuti e in moltissimi altri servizi che dimentichiamo o ignoriamo. Quando si rendono conto di questo, molte persone prendono nuovamente coscienza del fatto che viviamo e agiamo in una realtà che ci è stata donata e che è anteriore alle nostre capacità e alla nostra esistenza. Perciò, quando si parla di uso sostenibile bisogna sempre introdurre una considerazione sulla capacità di rigenerazione di ogni ecosistema nei suoi diversi settori e aspetti».

In una carrellata di religioni illustri che si è espressa sull’argomento, non può mancare il Dalai Lama, rappresentante di un movimento che in tempi non sospetti ha fatto del green la sua bandiera. «Il mondo naturale è la nostra casa» ha affermato, precisando che esso «non necessariamente è qualcosa di sacro: è semplicemente il luogo in cui viviamo». E, intervistato da «The Guardian», ha recentemente lanciato un’ironica provocazione proponendo di riempire una stanza di anidride carbonica con i leader mondiali al suo interno, non facendoli uscire «fino a quando non ne comprenderanno gli effetti».

Meno note ma potenzialmente impattanti, almeno per numeri assoluti, è l’approccio ambientalista dell’Islam. Con una teoria ecologista elaborata dalla fine degli anni Sessanta, intellettuali e studenti di teologia islamica hanno voluto promuovere uno stile di vita sostenibile e congruo con i precetti dell’Islam. Nel suo libro L’Uomo e la Natura: la crisi spirituale dell’uomo moderno, il fondatore del cosiddetto «Eco-Islam», Seyyed Hossein Nasr, sostiene la necessità della conservazione della natura e del rispetto del creato ascrivendo le cause dei problemi che affliggono il pianeta agli esseri umani «che hanno perso il senso di stupore e di preoccupazione per se stessi e per l’universo».

Tale stato «è il risultato dell’erosione della consapevolezza del sacro» e la crisi ecologica «è la conseguenza diretta di una crisi spirituale». L’induismo, da parte sua, ritiene che il rispetto e la cura dell’ambiente «sono frutto di una presa di coscienza filosofica e spirituale oltre che una questione eticomorale di natura sociale e civile». Ne consegue che un comportamento non virtuoso in tal senso è frutto di una insufficiente consapevolezza spirituale. La religione che è considerata la terza al mondo per numero di credenti, va oltre, precisando che l’impegno per una cura ambientale non debba essere raccomandata solo per l’essere umano, ma per ogni essere vivente che abita il pianeta in cui tutti hanno pari dignità.

Chiudiamo questa rapida rassegna con il Taoismo, il cui libro sacro Daodejing, afferma che ogni individuo è parte del tutto e cerca di svilupparne il benessere all’interno di tale contesto. Di conseguenza tutto è intrinsecamente correlato e interdipendente e il fine ultimo è costituire una società armoniosa e pacifica. Potremmo continuare e, con un pizzico di perfidia, stilare la classifica delle nazioni più inquinanti al mondo per valutarne la corrispondenza con le rispettive religioni più diffuse, ma sarebbe inutile oltre che poco scientifico.

È interessante rilevare, piuttosto, un sempre più frequente impegno ambientale da parte delle più importanti religioni del pianeta. Qualcuno (citiamo per tutti chi sta all’estremo come l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) parla di greenwashing religioso che, come per le comuni aziende, consente di riverniciare i rispettivi testi sacri per assicurarsi una patente ambientalista, piuttosto redditizia di questi tempi in termini di seguaci e simpatizzanti.

Da un punto di vista meno parziale e più propositivo, sarebbe meglio prendere atto che, anche in termini di soul governance, le grandi guide spirituali del pianeta stanno prende posizioni sempre più nette e condivise su temi così delicati e impattanti sul nostro futuro. Dopotutto, l’etimologia di salute va ricercata nella parola latina salus, ovvero (dalla Treccani) «salvezza, stato di benessere, di tranquillità, d’integrità, individuale o collettiva; ma anche armonico equilibrio psichico dell’organismo umano (e analogamente negli animali) oltre che stato di felicità spirituale e di beatitudine»

Tratto da “Ritrovare l’umano”, di Massimo Lapucci e Stefano Lucchini, Baldini+Castoldi, 128 pagine, 17 euro

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