Agli inizi di un controverso cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il soldato e comandante israeliano Adam Mizrachi, ventiquattro anni, ci racconta cosa significa essere un combattente a Gaza, affrontare la perdita di una persona cara in guerra, e raggiungere un accordo.
Dopo aver prestato servizio nell’unità paracadutisti, e completato un corso per diventare comandante, Adam ha trascorso un anno e mezzo a formare nuove reclute. Cresciuto nel sionismo religioso di Rav Kook, considerava un onore difendere la sua nazione prestando servizio militare. Sabato 7 ottobre aveva appena terminato la leva obbligatoria. «Avrei dovuto festeggiare con Yosef, il mio fratello gemello, la fine per entrambi del nostro servizio militare», racconta. Ma, quella mattina, le notizie e le immagini dei camioncini bianchi dei terroristi gazawi, che bucavano il confine con Israele e si avvicinavano a Sderot, cambiarono tutto.
Nel caos che seguì l’attacco, gli ordini dei superiori tardavano ad arrivare. Adam decise di prendere l’iniziativa e di radunare i suoi soldati senza perdere tempo. E, dato che non avevano giubbotti antiproiettile per tutti, e non c’era il tempo di aspettare le consegne ufficiali, uno dei suoi soldati ha scassinato il deposito delle munizioni per prenderli. Subito dopo, divisi tra elicotteri e fuoristrada, si sono diretti verso sud, sul luogo del massacro. «Lungo la strada per Re’im abbiamo visto a terra quattro lavoratori thailandesi mutilati. Così abbiamo iniziato a capire la gravità della situazione», spiega Adam.
Proseguendo verso l’insediamento di Erez, hanno assistito a una scena il cui orrore ancora li perseguita, circondati da cadaveri: «Un forte odore di morte mi bruciava le narici. Nulla avrebbe potuto prepararmi a tanto». Lì, la sua squadra – equipaggiata di armi pesanti e con i cecchini – è riuscita ad impedire ulteriori incursioni. Dopo tre giorni, trascorsi ad espugnare l’area dal controllo dei terroristi, la sua unità è stata trasferita a Sderot, per il lento e delicato compito di recuperare e ricollocare i corpi delle vittime, identificando via via i brandelli umani. Poi, è iniziato lo zman iakar ossia il “tempo prezioso” di addestramento e riposo in preparazione alla controffensiva via terra: «Una volta iniziato il combattimento, non sai quando avrai di nuovo occasione di riposare, perciò conviene farlo prima».
Sabato 4 novembre, la sua unità è stata chiamata a Gaza: è stata tra le prime ad entrare in territorio nemico. Racconta che, prima di partire, i soldati hanno fatto il “cerchio dei combattenti”, il rituale di incoraggiamento del neshika vestira: un bacio e uno schiaffo a chi sta alla tua destra. Poi si sono incamminati, finché al ricevitore radio non hanno sentito un compagno annunciare: «Ragazzi, abbiamo attraversato il confine, Am Israel – il popolo di Israele – è dietro di noi».
Dopo tre settimane di combattimenti, c’è stato il primo cessate il fuoco, dal 24 al 30 novembre. La squadra di Adam è stata quindi mandata ad espugnare una delle roccaforti di Hamas, dove ha scoperto uno dei tunnel più vasti: profondo trenta metri e lungo cinque chilometri: arrivava fin dentro Israele. Adam spiega, a proposito, che «operare nei tunnel era ancora più complicato» perché potevano emergere improvvisamente dei terroristi e spararci. Oppure potevano esserci gli ostaggi nascosti.
La quinta notte dopo la ripresa della guerra, un ufficiale ha convocato Adam per dirgli quello che lui ricorda come la cosa peggiore che abbia mai sentito. Suo fratello gemello era stato ucciso nella parte sud della Striscia. Quando è tornato dai suoi soldati, dice ora, fu Amitai Bitton, uno dei suoi migliori amici, ad aiutarlo e a sostenerlo. Abbracciandolo, racconta Adam, gli disse: «Fratello, vai dalla tua famiglia e stai tranquillo. Mi prenderò cura io di tutto qui».
Tornato in Israele per il funerale del fratello, Adam è stato avvicinato durante la cerimonia da Itai, il padre di Amitai. «Come sta mio figlio?», gli ha chiesto. «Sta bene e combatte valorosamente», gli ha risposto Adam.
Più tardi, quando Itai è tornato a casa dal funerale, ha trovato tre ufficiali ad aspettarlo davanti alla porta: c’era stato un combattimento intenso a Gaza, due soldati serano rimasti feriti. E suo figlio Amitai era stato ucciso. «Appena l’ho saputo sono corso all’ospedale Sheba a trovare i miei soldati feriti, e poi all’ospedale Soroka dove si trovava il corpo di Amitai», racconta Adam. «Il mio amico aveva preso il mio posto ed era stato ammazzato. L’abbiamo sepolto accanto a mio fratello. È iniziata così la mia shiva (lutto ebraico di sette giorni), ma io riuscivo a pensare solo ai miei soldati, che avevano assistito alla morte del loro comandante. Non volevo lasciarli da soli».
Quando Adam è tornato dai suoi soldati era già Hannukah, e nella notte spaventosa di Gaza, con il lutto ancora addosso, si sono confortati a vicenda accendendo le candele e pregando.
Pensi che l’azione militare fosse necessaria per difendere Israele, gli chiedo. «Basta ascoltare Hamas. Quando loro ci dicono che il loro obiettivo è distruggerci, beh, bisogna crederci».
Alcuni hanno criticato i centri di ristoro per i soldati, definendoli «resort del genocidio». Questi centri sono dotati di fisioterapisti volontari, lavatrici, docce, bagni ghiacciati rigenerativi e musica. «Non sono resort. Dopo giorni e notti in combattimento, in cui si mangia quel che capita e si dorme poco e male e sempre sotto imminente pericolo, i soldati hanno bisogno di pause. Molti di noi hanno perso amici e familiari, e queste pause sono fondamentali. Sono gli unici momenti in cui si può tirare un respiro» spiega lui.
Mohammed Sinwar, fratello del leader di Hamas Yahia, continua a reclutare nuove truppe. Secondo le stime dell’ex Segretario di Stato americano Antony Blinken, Hamas ha quasi recuperato i numeri di combattenti persi durante il conflitto. Voglio sapere da Adam come si spiega questa resilienza.
«Hamas è una convinzione, è un’idea. Sono convinti di aver vinto la guerra e festeggiano. La gente di Gaza ora non ha niente se non combattere, e il loro unico modo per ottenere soldi è arruolarsi in Hamas. Ora lì c’è solo molta distruzione – continua Adam – e la vita dei civili lì è molto dura. Ho visto con i miei occhi razzi e bombe nelle scuole, negli ospedali, sotto i letti dei bambini. È un’immagine che mi rattrista molto».
Gli chiedo quindi di parlami di odio, rabbia, paura e compassione. «È un gruppo di parole molto potenti. Dal 7 ottobre sono morte molte persone. Io stesso ho partecipato a molti funerali. Ho conosciuto il significato di ciascuna di queste parole come mai prima d’ora. Una volta, in una zona di combattimento attivo che era stata evacuata dai civili, abbiamo sentito rumori provenire da una casa. Pensavamo si trattasse di militanti che volevano tenderci un agguato, e avevamo il permesso di lanciare una granata. Ma abbiamo insistito per avvicinarci a controllare chi ci fosse. Era una famiglia. Abbiamo saputo più tardi che erano stati trattenuti lì da Hamas per crearci difficoltà. Ci sono delle eccezioni, ma la maggior parte dei miei compagni nell’Idf sa bilanciare combattimento e compassione».
Ora, davanti all’accordo di tregua, molti si chiedono per che cosa siano stati sacrificati i quattrocentocinque soldati che sono rimasti a uccisi a Gaza. Adam è grato che alcuni ostaggi stiano tornando a casa, e non pensa che il sacrificio di suo fratello sia stato vano. «Ma non voglio, tra qualche anno, vedere i nostri figli ancora a Gaza perché il problema non è risolto. Posso solo sperare che alla fine andrà tutto bene» aggiunge.
Infine, Adam mostra le foto della notte che è tornato dai suoi soldati dopo il funerale di Yosef e di Amitai: gli abbracci, i canti, le preghiere: «Siamo un popolo di leoni, e anche nelle peggiori avversità, ci diamo man forte l’un l’altro».