Dovrebbe essere chiaro – ma evidentemente non lo è – a tutti i sinceri garantisti italiani, vertici delle camere penali compresi, che la strategia del Governo non è quella di neutralizzare l’uso eversivo del cosiddetto controllo di legalità, che ha consentito nei fatti di imporre la sovrintendenza democratica della magistratura inquirente sulla vita civile, economica e politica del Paese e di innalzare la legge penale a straordinario e privilegiato mezzo di governo.
Questa pretesa, da Mani Pulite in poi, è stato il precursore e poi l’incubatore di un populismo antipolitico dilagato a destra come a sinistra, al di là di ogni apparente differenza ideologica. Di certo non se ne può presumere immune la destra, che ha attraversato l’ultimo trentennio passando dagli antichi fasti delle monetine al Raphael, dei cappi in Parlamento e delle dirette Fininvest davanti al Tribunale di Milano col resoconto degli arresti di giornata ai più recenti picchettaggi di Bibbiano e scandagli diffamatori sulle inchieste e sugli avvisi di garanzia che colpivano gli odiati dirimpettai di sinistra, parenti compresi.
L’asservimento della giustizia all’ideologia del nemico e ai progetti di rinascita politica nazionale – cioè a quella sorta di piduismo democratico bipartisan, che è stato l’altra faccia della medaglia di ogni auto-dichiarato allarme autoritario, da destra verso sinistra e viceversa – ha rappresentato il sogno, neppure inconfessato, di tutti i salvatori della Patria che il fanatismo giustizialista ha prima partorito e poi divorato dal 1994 a oggi.
Questo manipulitismo stentoreo e imbroglione è stata l’autobiografia della nazione della Seconda Repubblica, esattamente come il fascismo nel Ventennio: non solo un regime politico assistito da un consenso diffuso e rumoroso, un po’ violentemente estorto e un po’ liberamente prestato, ma anche una fotografia morale dello spirito dell’Italia e degli italiani e del loro rapporto con i problemi della storia nazionale.
In fondo, sono tutti d’accordo. La giustizia – questa è la tesi – in Italia è ingiusta perché non persegue e punisce meritatamente i cattivi, ma perseguita e condanna immeritatamente i buoni (su chi siano gli uni e altri, de gustibus), mica perché il diritto penale è diventato un ricettacolo di paure e una discarica di pregiudizi, perché ai magistrati è chiesto di applicare non la legge, ma il senso comune, perché la supplenza giudiziaria è anche il frutto del discarico della responsabilità politica e perché il giudice penale, al di là degli equivoci ordinamentali, è risucchiato da aspettative sociali iper-mediatizzate, che gli chiedono non di giudicare i fatti, ma di vendicare le vittime.
È vero che la destra in questi decenni si è vista regalare il vantaggio competitivo di rappresentare almeno nominalisticamente il garantismo, cioè la civiltà del diritto, da una sinistra persa dietro ogni sorta di fascisteria giudiziaria potenzialmente anti-casta e anti-sistema, al punto di innamorarsi da magistrati che, evidentemente, indossavano la toga sopra l’orbace.
Ma è ancora più vero che il garantismo discriminatorio, razzista e classista della destra (che proprio la pretesa liquidazione giudiziaria dei diritti dei migranti illumina in tutta la sua miseria) non è affatto un bicchiere mezzo pieno, non è un passo avanti nella direzione giusta, esattamente come la schiavitù non è mai stata il bicchiere mezzo pieno o il passo non ancora completato nel cammino della libertà.
Se pure è vero che la riforma sulla separazione delle carriere – che peraltro, a differenza di quella proposta dai penalisti italiani qualche anno fa, non sfida il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale – non comporta, né secerne una surrettizia subordinazione dei pm all’esecutivo, ciò non dimostra affatto che nella destra italiana non ci sia questa idea del primato dell’esecutivo nell’ordine dei poteri separati e quindi della funzione politicamente servente della giurisdizione, a cui praticamente ogni giorno i giudici sono minacciosamente richiamati, come se l’applicazione della legge coincidesse con la predeterminazione delle sentenze gradite all’esecutivo.
Se il modello di questa destra è Viktor Orbán, l’esempio di maggiore successo è evidentemente Trump, che in quanto eletto dal popolo rivendica il diritto di essere sia giudice dei giudici che vendicatore dei giudicati, lanciando insieme una caccia all’uomo contro chi ha indagato e condannato lui e gli altri delinquenti del circo Maga, e graziando migliaia di persone che avevano invaso il Campidoglio il 6 gennaio 2021, “giorno dell’amore”.
Accettare di schierarsi o di qua o di là – o con l’Associazione nazionale magistrati (Anm) o con il Governo, ad esempio – e prendere partito in questa guerra dell’ingiustizia è il tradimento più grave e la scemenza più clamorosa che potrebbero fare, anzi – togliamo il condizionale – che stanno facendo oggi moltissimi di quei pochissimi che avrebbero tutti i mezzi e l’intelligenza per demistificare questa falsa alternativa.