New York. Più truppe in Afghanistan, ventiduemila più dell’era Bush, nel mese in cui le vittime civili sono aumentate del 24 per cento rispetto all’anno scorso. Possibili sanzioni internazionali sull’Iran, già a fine settembre. Bombardamenti con i droni Predator sul Pakistan (30 in totale, per 365 morti). Massiccia presenza militare in Iraq, ancora ai livelli precedenti, e un morigerato calendario di rientro concordato da George W. Bush e dal governo iracheno.
Sei mesi sono un periodo ancora troppo breve per valutare l’efficacia della nuova strategia politica e diplomatica di Barack Obama nel cuore del mondo arabo e islamico – dall’Afghanistan all’Iran, dal Pakistan all’Iraq – ma sono sufficienti per tirare un primo bilancio, notare un riallineamento strategico rispetto alle aspettative e sottolineare una certa continuità con le scelte di Bush.
Il presidente Obama, come ha scritto un recente studio della Brookings Institution, è riuscito nella formidabile impresa di riconquistare la fiducia e l’ottimismo degli americani e anche dell’opinione pubblica internazionale sugli Stati Uniti, perse negli anni del suo predecessore. Si tratta di una svolta che, secondo gli studiosi della Brookings, ricorda quella riuscita a Ronald Reagan nei suoi primi sei mesi di presidenza per far uscire l’America dal malessere e dal disagio, “malaise”, associato all’era di Jimmy Carter.
Il pilastro della grande svolta obamiana avrebbe dovuto essere l’apertura del dialogo con l’Iran degli ayatollah atomici, sulla base di un approccio pragmatico alle questioni di politica internazionale, ma la reazione dispotica e sanguinosa del clero di Teheran ha cancellato ogni ipotesi realistica di venire a patti con il regime islamico sulla questione dell’apparato nucleare militare che, secondo l’Agenzia atomica dell’Onu e le ultime inchieste giornalistiche indipendenti, è a circa un anno dal suo completamento.
Gli uomini di Obama stanno frettolosamente rielaborando una strategia alternativa al dialogo, come ha raccontato sul New York Times Magazine l’opinionista liberal Roger Cohen, da sempre sostenitore del dialogo con gli ayatollah. A differenza dei precedenti storici cui Obama fa riferimento per giustificare la sua politica aperturista – come i rapporti tra l’America di Franklin Delano Roosevelt e la Russia della carestia imposta da Stalin o tra Richard Nixon e la Cina della sanguinaria rivoluzione culturale – la violenza di stato nelle piazze di Teheran s’è vista diffusamente su YouTube ed è entrata nella coscienza globale internazionale al punto da aver conquistato alla causa icone pop come gli U2 e Madonna. Nelle strade di Teheran, ha scritto Cohen, la gente chiede dove sia Obama e sentenzia sul campo il fallimento della Realpolitik del presidente nero.
La posizione ufficiale della Casa Bianca sulla questione del nucleare, già dal primo incontro a Washington con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, resta ufficialmente quella dell’apertura, anche se non infinita. Pur senza fissare ultimatum, Obama aveva infatti detto che avrebbe aspettato una risposta iraniana entro la fine dell’anno e che se non fosse arrivata avrebbe coinvolto la comunità internazionale per adottare sanzioni economiche da aggiungersi a quelle americane già in vigore.
La strategia non è mai stata lineare. Hillary Clinton e Joe Biden, segretario di stato e vicepresidente, non sono mai stati entusiasti dell’approccio soft di Obama, e del resto l’avevano criticato aspramente durante le primarie del Partito democratico (Hillary aveva detto che era “ingenuo”). Dennis Ross, negoziatore ed esperto di medioriente passato dal dipartimento di stato al Consiglio di sicurezza nazionale per coordinare le politiche sull’Iran, ha scritto un libro per spiegare che è molto probabile che l’offerta di dialogo sarà rigettata, ma di non disperare perché servirà a convincere il resto del mondo ad adottare misure più efficaci per fermare il nucleare islamico. A Washington c’è la sensazione – confermata da fonti vicine all’Amministrazione e da frasi scappate qua e là ad alti funzionari obamiani – che Obama non sia più disposto a parlare di “inaccettabilità” del nucleare militare iraniano, come faceva in campagna elettorale, ma che piuttosto si prepari all’eventualità di dover contenere la minaccia atomica. C’è la linea dei grandi vecchi della politica estera americana di scuola realista, il conservatore Brent Scowcroft e il liberal Zbigniew Brzezinski, i veri ispiratori della linea Obama, secondo cui l’Iran atomico può essere contenuto esattamente come si è fatto con la Russia o la Cina negli anni della Guerra fredda. Ma c’è anche il filone cosiddetto “Leave it to Bibi”, lasciate che se ne occupi il premier israeliano Netanyahu, come da titolo del quinto capitolo dell’ultimo libro dell’analista democratico e obamiano Kenneth Pollack. Una posizione, quella di far risolvere il problema ai caccia israeliani, che ha avuto una specie di lasciapassare pubblico di Joe Biden e una pronta smentita da parte del portavoce di Obama. Qualunque sia la linea d’azione c’è comunque la consapevolezza che dagli ayatollah non arriverà nessun segnale di distensione e, soprattutto, che Obama non potrà permettersi di stringere la mano a quei rappresentanti del regime islamico che hanno represso nel sangue le proteste democratiche.
Secondo il quotidiano israeliano Ha’aretz, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Obama, Jim Jones, ha detto al governo di Gerusalemme che l’Amministrazione ha cominciato a pensare di vietare l’esportazione internazionale in Iran di benzina e carburante, che Teheran non è in grado di raffinare, nel caso in cui gli ayatollah non rispondessero alle offerte entro la fine di settembre, quando i grandi del mondo si riuniranno prima al Palazzo di Vetro dell’Onu e poi al G20 di Pittsburgh. Lo strumento a disposizione di Obama, secondo fonti governative citate dal Weekly Standard, è una proposta di legge ad hoc presentata da Joe Lieberman, già firmata da 71 senatori su 100.
5 Agosto 2009