DiBenedetto, Pallotta, D’Amore, Ruane. La banda dei quattro all american boys magari non realizzerà tutti i sogni a stelle e strisce dei tifosi della Roma, ma costringerà l’intero sistema calcio italiano ad allargare i suoi angusti orizzonti. E’ di due giorni fa il lamento di Galliani: il Financial Fair Play dell’Uefa non potrà che farci del male, le altre grandi d’Europa fatturano quasi il doppio di noi, senza il mecenatismo dei Berlusconi e dei Moratti non andremo più da nessuna parte. Parole sante. Poi Galliani avrebbe dovuto aggiungere: la colpa di tutto questo è sola nostra, di noi dirigenti del calcio italiano, che solo una dozzina di anni fa fatturavamo più degli inglesi, quasi più di tedeschi e spagnoli messi assieme e allora ci siamo addormentati, abbiamo solo continuato a giocare con le nostre televisioni (nostre in senso letterale), dimenticandoci di diversificare le fonti di ricavo, lasciando deteriorare il brand del calcio italiano nel mondo, truccando i campionati attraverso il sistema Calciopoli, facendone crollare competitività e spettacolarità, dimenticandoci di investire sui settori giovanili, fingendo soltanto di volere nuovi stadi e bussando a nuove leggi e denari anziché lavorare per farli davvero. Ma Galliani tutte queste cose non le ha dette, si è solo limitato a evocare la necessità di qualche nuovo aiutino, fiscale se possibile.
Chissà se questo suo sfogo è stato ispirato dallo sbarco americano. L’idea che sia in arrivo nella capitale un gruppo di signori che dicono: fermi tutti, qui c’è non solo una squadra da mantenere competitiva, ma anche un marchio da valorizzare in Italia e nel mondo (e che marchio: Roma, nientemeno), c’è uno stadio nuovo, comodo, sicuro, da costruire e da riempire, c’è tutto un business da ripensare, è un’idea dagli effetti potenzialmente dirompenti per il calcio che abbiamo imparato a conoscere. DiBenedetto non ha né la ricchezza e la generosità di un Abramovich, né le mani bucate di un Mansour, l’emiro di Abu Dhabi che sta elargendo denari a tutti i club d’Europa senza riuscire a far grande il Manchester City, né la consistenza imprenditoriale di un Glazer, il tycoon che gestisce con avvedutezza la miniera Manchester United. No, lo zio Tom non è un signore in grado di fare quello che tutti i tifosi della Roma si aspettano: e cioè arrivare e comprare in estate sei giocatori importanti per conquistare la piazza. E’ semplicemente un investitore in private equity che, con la collaborazione di almeno un socio (Pallotta) più facoltoso ma meno appassionato di lui, un po’ per celia e un po’ per autentica passione sportiva vuole provare a cimentarsi con il calcio per dimostrare agli italiani che si può fare business e ottenere risultati, anche senza doversi per forza rovinare. Sarebbe una grande sfida. Si alzerebbe l’asticella dello stesso mestiere di dirigente sportivo.
Certo, il calcio è un’industria atipica. I ritorni non sono garantiti. E’ anche uno sport atipico. La chimica di squadra è più complicata che nel basket, nell’hockey, nel baseball o nel football Usa. Ma un discreto know how calcistico gli americani ormai lo hanno acquisito. In Inghilterra. Dopo la recente scalata di Stan Kroenke all’Arsenal, adesso sono cinque su venti le squadre di Premier League controllate da investitori Us. Qualcuno ha fatto anche il furbetto del palloncino: ad esempio, gli ex proprietari del Liverpool, Hicks e Gillet, e il magnate Glazer (Manchester United), che rilevarono i club attraverso operazioni di debt leveraging, cioè facendosi completamente finanziare e mettendo il debito a carico del club. Ma, complessivamente, l’ingresso di investitori stranieri, statunitensi e non solo, ha arricchito non solo di denari, ma anche di idee e best practices il calcio inglese, già basato su un modello molto ben funzionante: grande spettacolo, stadi pieni, gestione manageriale efficiente, marketing sviluppato a livelli assai raffinati. In Italia non troveranno le stesse strutture e sovrastrutture Uk. Piuttosto troveranno ad aspettarli, soprattutto nella Lega Calcio, falsi amici che fingeranno di mettersi a disposizione per riuscire invece a neutralizzarli prima e inghiottirli poi nel vecchio sistema. Speriamo che riescano a resistere. Ne abbiamo più bisogno noi (appassionati di calcio) di loro.
16 Aprile 2011