E’ peggio una riforma mancata o una mezza riforma? A prescindere dai contenuti, crediamo che sia di gran lunga peggiore una mezza riforma, perché le mezze riforme alimentano una spesso inutile canea ed abituali giaculatorie dei pretesi riformati. Quando era ministro dello sviluppo, l’on. Bersani – sia detto per inciso: meglio come ministro che come segretario di partito – provocò le ire dell’avvocatura italiana, eliminando i minimi tariffari per le prestazioni professionali ed erodendo il divieto del c.d. patto di quota lite.
Con un governo nuovo di zecca, è normale che si ripresenti il tradizionale cahier de doleance dell’avvocatura al novello Ministro della Giustizia. Con in cima, oltre alla necessità di garantire una giustizia efficiente e celere, anche il tema della riforma della professione.
Nel far questo non vorremmo che si profittasse dell’occasione per far macchina indietro e ripristinare il divieto di patto di quota lite (per i non addetti: si tratta della possibilità di retribuire il professionista in proporzione rispetto all’esito della controversia, clausola notoriamente in vigore in moltissimi ordinamenti e, in particolare, nei sistemi di common law, dove assume il nome di contingency fee).
Una simile iniziativa sarebbe di per sé inutile, perché le “lenzuolate” bersaniane avevano introdotto la mera facoltà di stipulare i patti di quota lite. Appunto: una mezza riforma, posto che nel rapporto avvocato/cliente, solo clienti contrattualmente molto forti (ed informati) avrebbero potuto esigere un simile accordo.
Chi scrive, invece, è convinto che se si volesse contribuire ad un aggiornamento della disciplina avrebbe senso invece prevedere l’obbligatorietà del patto di quota lite non per tutte le cause (prevalentemente civili), ma senz’altro per le domande risarcitorie derivanti da responsabilità civile. Ad esempio: il soggetto investito, la vecchietta che scivola in supermercato, la signora che lamenta di esser stata aggredita dai cani di una vicina e via discorrendo.
Oggi, il preteso danneggiato che introduce la domanda (controparte, di norma, una società, una compagnia di assicurazioni, insomma la classica deep pocket) anticipa i costi della propria difesa, in attesa dell’esito del giudizio (che, se favorevole, potrebbe prevedere un parziale rimborso a danno della parte sconfitta in giudizio).
E’ quindi evidente che tale dinamica costituisca già un primo limite all’accesso alla giustizia.
Ma, e questa evenienza è ancor peggiore, la parte danneggiata rischia di sopportare non solo i costi della propria difesa ma anche quelli della controparte nel caso in cui la domanda sia infondata, con applicazione – oggi molto meno discrezionale – del principio della soccombenza.
Tale esito è ancor più probabile nei casi in cui la domanda introdotta appaia sin dall’inizio poco fondata o, che poi è lo stesso, inadeguatamente provabile in giudizio.
L’alternativa, spesso praticata per ragioni equitative, è di far sopportare a ciascuna delle due parti i propri costi di difesa, per evitare che il malcapitato preteso danneggiato paghi due volte.
L’obbligatorietà del patto di quota lite in questo genere di cause, invece, consentirebbe di raggiungere esiti più efficienti ed equi.
Così il danneggiato dovrebbe solo anticipare i costi fissi per introdurre la domanda e remunererebbe il proprio legale solo in caso di esito positivo della lite. In caso negativo, sopporterebbe i soli costi derivanti dalla soccombenza, rimborsando le spese di lite a controparte. Ma ciò solo nei casi in cui non vi sia ragione, per il giudice, di compensare le spese (è il caso, ad esempio, delle cause il cui accertamento è oggettivamente complesso e non prevedibile). Il che equivale a dire che in tutti quelle controversie in cui la causa era o manifestamente infondata oppure sprovvista di adeguate prove, il costo del giudizio verrebbe accollato all’avvocato dell’attore. E qui si sentono già gli argomenti dell’avvocatura.
Ma a questi argomenti vale la pena di rispondere così. Il patto di quota lite consente di ampliare l’accesso alla giustizia riducendo i costi iniziali anticipati dal preteso danneggiato. Inoltre, risolve egregiamente il problema delle asimmetrie informative tra cliente ed avvocato: è il secondo che conosce – o dovrebbe conoscere ragionevolmente – il grado di fondatezza della domanda risarcitoria e dovrebbe quindi operare come selettore delle cause meritevoli di esser intraprese escludendo l’introduzione di controversie manifestamente infondate (che producono costi per l’intero sistema). Infine, riduce l’azzardo morale da parte del danneggiante: dovendo sopportare i costi finali di una domanda infondata, l’avvocato dissuaderà il suo cliente dal giudizio, mentre troppo spesso, oggi, l’esperienza dei Tribunali conferma l’esatto contrario.
Così, invece di impedire l’accesso alla giustizia – come paventano gli organi dell’avvocatura italiana – se ne facilita il ricorso, contribuendo a garantire un miglior utilizzo delle risorse (per definizione ed oggi per necessità: scarse) del sistema giustizia con tempi più celeri escludendo quel contenzioso che troppo spesso non meriterebbe alcun ascolto. Inoltre, si imporrebbe un diverso approccio, ed una più severa competenza, agli avvocati.
L’avvocatura, per giustificare e difendere il proprio ruolo, deve saper affrontare le sfide della modernità. Ed abbandonare l’immagine, nobile ma frusta, dell’avvocato ottocentesco. Non per ideologismo, ma per senso della realtà.