In un recentissimo post sul suo blog (Il non senso della vita, Lacrime di coccodrillo), il prof. Odifreddi si lancia contro il bersaglio facile: criticare i provvedimenti del governo Monti.
Per carità, tutto legittimo, anzi quasi pure comprensibile, se non fosse che lamentarsi dei provvedimenti adottati è come contestare il chirurgo che amputa per evitare la gangrena: inutile.
Non perché via sia nulla di intoccabile, la bozza del governo non esce da un roveto ardente. Ma è, per la sua parte prioritaria, l’applicazione di misure tanto semplici quanto ovvie, in particolare in materia previdenziale.
Ed il ministro Fornero non è la scriteriata sanguinaria di cui parla il prof. Odifreddi. E’ una persona colta, seria e competente che ha applicato al sistema pensionistico italiano un principio semplicissimo: il suo adeguamento alla curva demografica (ohibò), e l’estensione del metodo contributivo di computo della pensione a tutti, superando il dualismo previsto dalla riforma Dini del 1995.
E’ impensabile immaginare che si possa mantenere in equilibrio un sistema previdenziale che vede modificare le aspettative di vita in meglio. Le istituzioni e le norme che le conformano hanno come referente la realtà che possono ordinare, nei limiti del possibile, ma non stravolgere. Le leggi, prodotte da qualsiasi legislatore, non possono mettere le brache al mondo dei fatti, ma presupporre questi.
Ma questo al prof. Odifreddi non va giù: per lui l’intervento del ministro Fornero è frutto della follia di un professore che decide di sperimentare sul campo le proprie astratte teorie, costi quel che costi.
Ma la cosa ancor più bizzarra è che il prof. Odifreddi, alla fine del suo ragionamento, faccia ricorso alla prova del nove per misurare la tenuta della manovra, ovvero al moderno experimentum crucis di baconiana memoria: il giudizio che di essa ne danno la Confindustria ed i Sindacati. Siccome la prima dice che la manovra va bene, mentre i secondi la avversano, questa rappresenterebbe la prova della iniquità, dell’ingiustizia consumata.
Sulla Confindustria tacciamo, consapevoli che non rappresenti una unità di misura migliore delle altre.
Ma affermare che gli umori sindacali siano una sorta di barometro di equità è troppo anche per il più smemorato degli osservatori dei fatti italiani.
Basti una coppia di precedenti.
Il primo, correva l’anno 2007. Era trascorso, con la consueta tolleranza, il termine decennale per la revisione dei coefficienti di trasformazione previsti dalla riforma Dini (in breve: il criterio, basato su stime demografiche, per calcolare il trattamento pensionistico sulla base delle aggiornate aspettative di vita). Il povero ministro Padoa Schioppa mise in agenda la revisione. I sindacati risposero che questa era l’ennesima riforma pensionistica. Inutile, per TPS, sostenere che si trattava di dare applicazione alla legge vigente, approvata col consenso sindacale. I sindacalisti hanno con la verità un rapporto alquanto latitudinario.
Secondo precedente. Chi non ricorda l’appoggio sindacale all’operazione CAI in salvataggio di Alitalia? Chi non ricorda che l’intransigenza sindacale di allora mandò all’aria il piano sempre del povero Padoa Schioppa che avrebbe consentito di mantenere un minimo di concorrenza tra vettori e di non far pagare agli italiani il conto del fallimento di Alitalia? Come andò a finire lo sappiamo tutti: CAI si è presa la polpa (poca), facendola rosicchiare pure ai sindacati. A noi è rimasto l’osso (i debiti) e paghiamo il prezzo dell’assenza di concorrenza garantita per legge, con deroga ai trattati comunitari.
Caro prof. Odifreddi, tutto è legittimo, per carità. Ma si prenda la briga di cambiare l’unità di misura.