Tre ore di sciopero generale (nell’unità sindacale ritrovata) contro una manovra “lacrime e sangue”. Il minimo obbligatorio garantito per non perdere il seguito di classi di età di lavoratori costretti ad affrontare dalla sera alla mattina un “superscalone” di sei anni prima dell’età della quiescenza. Sei anni all’improvviso contro tre: quando nel 2004 lo “scalone Maroni” prevedeva un salto nella riforma previdenziale si scatenò la protesta generale, con quattro giornate di scioperi e la furente indignazione contro la “macelleria sociale”. Non solo: appena andata al governo la sinistra con Prodi, lo scalone venne abolito d’imperio dal nuovo ministro del Lavoro Cesare Damiano, compagno di banco all’Istituto per il turismo di Torino di Elsa Fornero, ora attuale titolare del welfare e incline alle lacrime e alla commozione per i poveri lavoratori tartassati.
Forse, e senza forse, quella antica riforma lasciata svolgere nel suo ciclo fisiologico avrebbe portato a regime i suoi frutti anche nei tempi difficili che stiamo vivendo, privando il già doloroso aggiustamento dei conti di un tassello oggi odioso. .Anche per normale buon senso, non c’è nessuno che abbia il piccolo coraggio e la semplice onestà intellettuale di riconoscere di avere allora sbagliato con il risultato di caricare il presente di un fardello del quale si poteva fare tranquillamente a meno.
E’ un esempio, tutto sommato piccolo di fronte al disagio sociale che sta accompagnando le prime prove di un “governo tecnico” al quale è di fatto impossibile dire di no. Certo, il rituale protestatario rinfocola il vincolo di appartanenza e rassicura il senso di ruolo sociale, limitato alle classi di età dei “garantiti”. Ma quello che stupisce è che nessuno nell’arcipelago della sinistra politica e sociale sia disposto a fare i conti con se stesso e il suo recente passato..
Come se bastasse continuare a coltivare l’illusione di poter prescindere una volta di più dalle”dure repliche della storia” e allegramente poter “parlar d’altro” scaricando magari sulle frequenze tv o sull’Ici alla Chiesa le antiche “colpe” di omissione.per non aver affrontato nei tempi dovuti la sfida della modernità e del cambiamento.
Era il cruccio amaro di Marco Biagi (e dei liberi intelletti riformisti) che cercavano di far comprendere la necessità imprescindibile di governare il tempo nella tutela autentica del lavoro e della sua nobiltà: il silenzio negativo che circonda le proposte di Ichino e la sua scorta ne sono un ulteriore, odierno segnale.
Eppure la centralità sociale del sindacato e dell’attenzione ai deboli sono un bene comune necessario per un Paese che vuole avere contezza di sè e non perdere la sua dimensione di stare insieme : di fronte a questa testarda “libidine di minoranza” e di fuga nella liturgia non basta, caro Jacopo, puntare sul salto generazionale che farà impietosamente giustizia di un passato che sopravvive a se stesso. Meglio incalzare con ferma durezza gli errori e i ritardi, per non ritrovarsi con il campo del futuro ingombrato dalle macerie costose di un assetto che non ci sarà più. Sulle quali toccherà ballare il mambo del rimpianto e continuare magari, come accade da 36 anni, a pagare il vitalizio parlamentare ad Eugenio Scalfari e alla pletora di moralisti come lui. .