In tempi di emergenza non poteva mancare un intervento straordinario in materia di giustizia. In particolare, e nonostante il diverso avviso dei deputati-avvocati del Cavaliere, con espresso riferimento alla giustizia civile.
E non per caso.
Tra le tante conferme, per chi non avesse avuto il privilegio di aver a che fare con le cose della giustizia, basterebbe ricordare come l’Index of Economic Freedom (promosso dalla Heritage Foundation), rileva come in Italia seppur i diritti di proprietà ed i contratti siano riconosciuti, il processo civile è estremamente lento con la crescente tendenza da parte delle imprese a tentare la definizione del contenzioso in sede stragiudiziale [Nota metodologica tratta da http://www.heritage.org/ : il punteggio riservato all’Italia in materia di Property rights, così come definito nell’indice, è pari a 50 punti, ovvero «Il sistema giudiziario è inefficiente è soggetto a ritardi»].
Chè poi affermare come il diritto di proprietà o i contratti siano rispettati ma che la loro tutela richieda un accertamento defatigante, lungo e costoso è modo elegante per osservare – e ne è testimonianza la pratica quotidiano tanto dei tecnici del diritto quanto di chi fa impresa o di chi a diverso titolo rivendica un proprio diritto – che la tutela di quei beni, nel nostro sistema, è manchevole, ritardata ed eccessivamente approssimativa.
Così l’art. 15 del decreto legge 212 del 22 dicembre 2011 (con cui si è modificato il previgente art. 26 della legge 183 del 12 novembre 2011, c.d. legge di stabilità), in vigore dal 1 gennaio di quest’anno, prevede che le impugnazioni pendenti da oltre tre anni in grado di appello o di cassazione si intendono rinunciate se nessuna delle parti, con istanza sottoscritta dalla parte personalmente (e quindi non dal suo avvocato) dichiara la persistenza dell’interesse alla loro trattazione.
Come dire: magari nel frattempo, e nonostante il ricorso alla giustizia, i cittadini che vi si erano rivolti hanno dovuto far di necessità virtù e trovare un miglior accomodamento di quello dispensato, in ritardo, dalle Corti!
E’ uno dei tanti tentativi emergenziali che il legislatore si è inventato per cercare di ridurre il contenzioso pendente e, di conserva, cercare di abbattere l’arretrato, sperando di far sì che questo consenta una maggiore speditezza pro futuro.
Ma se il sistema processuale resta così com’è è inevitabile che tra qualche hanno l’arretrato così smaltito (ma ne siamo sicuri?) si riaccumulerà d’incanto.
Ed è per questo che sarebbe di gran lunga preferibile pensare ad una riforma radicale e profonda dei sistemi di impugnazione, tanto civili quanto penali.
Di seguito esporremo le linee guida di una proposta già avanzata ma che il nuovo quadro politico stimola a rinnovare.
Per non appesantire la descrizione rinvio ad altro post la descrizione delle premesse poste a fondamento (Contributi per una riforma della giustizia: Un nuovo modo di concepire il processo).
a) Una prima linea, più radicale, sarebbe rappresentata dall’abbandono dell’attuale grado di appello. La sentenza di primo grado accerterebbe il fatto (in sede penale non è definitiva, giusta la presunzione di non colpevolezza). Le attuali Corti di appello territoriali diverrebbero una sorta di sezioni territoriali della Suprema Corte di Cassazione con una valenza duplice. In primo luogo riceverebbero gli eventuali gravami contro la sentenza di primo grado. I motivi sarebbero quelli stessi tipizzati nel procedimento di cassazione (motivi che consentono un giudizio anche su questioni di fatto). La corte territoriale superiore avrebbe la funzione di vagliare la questione sottopostale preventivamente. Se l’impugnazione è infondata o pretestuosa, a seguito di un giudizio sullo stato degli atti, respinge immediatamente l’impugnazione. Se la giudica non manifestamente infondata per motivi logici procede nel giudizio. Se l’impugnazione si fonda su questioni di diritto, valuta se esse possano avere un interesse nomofilattico (ovvero volto a garantire l’uniforme interpretazione ed applicazione del diritto), riservato alla Corte Suprema di Cassazione di Roma e le rimette il giudizio. In caso negativo decide essa stessa.
La sentenza non è altrimenti impugnabile. La reiezione dell’impugnazione conduce alla condanna, automatica, alle spese.
b) Un seconda possibile riforma, potrebbe mantenere l’attuale funzione delle Corti di Appello e dell’unica Corte di Cassazione, introducendo, però, un filtro all’impugnazione.
In ogni caso, sia nella proposizione dell’appello, sia nel ricorso per cassazione, l’impugnazione dovrebbe essere autorizzata o dal giudice a quo (in persona di un magistrato diverso) che giudicherebbe allo stato degli atti vagliando la non manifesta infondatezza del gravame o direttamente dal giudice ad quem (in sezione diversa da quella chiamata a pronunciarsi in caso di vaglio positivo). E’ possibile strutturare il rapporto tra le due autorizzazioni come successive ed eventuali (manifestandosi il secondo giudizio ad istanza di parte e in sede di reclamo rispetto a quello del giudice a quo). L’intervento di riforma dovrebbe poi restringere di molto la possibilità di ricorso per cassazione per questioni di fatto (vizio di motivazione o errore logico). Anche qui, la reiezione dell’impugnazione condurrebbe alla condanna, automatica, alle spese.
In entrambi i casi è evidente come il rendere non automatica l’impugnazione impone alle parti, e soprattutto ai loro difensori, una diversa valutazione tattico-strategica: possono divenire molto più allettanti i benefici derivanti da un procedimento alternativo, in sede penale, data la maggior difficoltà ad ottenere il beneficio della prescrizione, così come, in sede civile, il minor margine di contendibilità della decisione giudiziale imporrebbe di valutare con maggior attenzione gli esiti di una definizione stragiudiziale del contenzioso (ciò in linea anche con i recenti interventi che impongono il tentativo di conciliazione, anche se la riforma qui proposta rende più concreto il risultato data la maggior conoscenza dell’andamento di un processo che non è più solo futuribile).
Da un punto organizzativo, entrambe le riforme richiedono una revisione degli attuali uffici giudiziari, con l’accorpamento ed accentramento delle strutture territoriali verso un unico tribunale almeno per provincia (che vuol dire maggiori magistrati di primo grado, a legislazione invariata, maggior personale di supporto).
Quello proposto, almeno, ha l’ambizione di essere un intervento non emergenziale ma strutturale. Di questi ultimi, più che di iniziative tampone, ha bisogno la giustizia italiana, ed ancor di più, e prima, i cittadini e le imprese che ad essa si rivolgono.