Su «Perché la Rai non è la BBC» esponevamo alcune delle linee di intervento necessarie per porre freno all’asservimento del sistema di informazione (pubblica) alle influenze e occupazioni politiche.
Dicevamo, però, che la proposta formulata doveva essere ritenuta la più accettabile nel contesto attuale.
Ciò, però, non vuol dire la migliore. Non perché il modello della BBC non sia validamente funzionante in Inghilterra (e potremmo poi associarvi molti altri modelli analoghi, come Reuters e Economist), ma perché quel modello trae beneficio dal contesto culturale, storico e civile di quel paese.
Ogni importazione di modelli, infatti, impone di far di conto con la realtà e con elementi che le norme giuridiche non possono modificare con un tratto di penna.
La cura elettiva per il malato Italia, in materia di informazione, è ben altra.
Si dovrebbe procedere, infatti, all’adozione di una legge ispirata ai seguenti, chiari, principi:
1) Privatizzazione delle reti Rai;
2) Disciplina antitrust che vieti la proprietà, anche indiretta, di partecipazione di controllo o di collegamento di più di una rete per ciascun soggetto;
3) Divieto espresso di partecipazioni nella carta stampata e contemporaneamente nell’informazione radiotelevisiva;
4) Efficaci poteri di intervento all’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato in caso di violazioni di tale assetto normativo.
Quanto proposto non sarebbe altro che la traduzione, in termini giuridici, di un vecchio principio della cultura liberale: il potere, per essere limitato e non danneggiare l’individuo, deve essere frammentato e diffuso.
Ma quanto proposto dovrebbe essere digeribile per un opinione pubblica che già nel 1995 bevette tutta d’un colpo la storiella che equiparava il referendum sulla legge Mammì ad un esproprio proletario.
Per questo, e solo per questo, ci siamo permessi di proporre un programma minimo di riforma. Consapevoli che un riforma liberale, in Italia, troverebbe troppe orecchie sorde ed insensibili.
10 Gennaio 2012