Non è solo la pigrizia a trattenere i giovani vicino alle sottane di mamma.
Come più volte osservato anche dall’ISTAT, il caso Italia dimostra che vi è una ragione strutturale per cui i giovani ritardano il più possibile l’uscita dalla casa familiare.
I fatti parlano chiaro. Alla conclusione del percorso formativo solo il 40% degli italiani (di età compresa tra i 20-25 anni) ha una occupazione, contro il 60% degli altri grandi paesi europei.
L’attuale crisi prima finanziaria poi economica sta ulteriormente penalizzando i giovani, il cui tasso di disoccupazione aumenta in maniera più che proporzionale rispetto alla generale perdita di lavoro, anche perché su di loro si abbatte la maggiore instabilità della struttura contrattuale.
Salendo di età, tra i 25 e 30 anni, lo scarto tra percentuale di occupazione resta significativo: due italiani su tre contro i tre su quattro degli altri paesi.
Il differenziale tra generazioni, poi, è ancor più allarmante: raggiunge i 20 punti percentuale (tra le fasce sino a 29 anni rispetto al gruppo composto dai lavorati compresi tra 30 e 54 anni).
A questo si aggiunga l’ulteriore svantaggio del livello retributivo che per un giovane risulta incomparabile rispetto alle retribuzioni di ingresso di un coetaneo inglese (quasi la metà) o del 50% rispetto ai pari età francesi o tedeschi.
Le possibilità di sviluppo professionale di un giovane italiano sono strettamente connesse con lo status della famiglia di origine, non solo per le scelte educative e per le opportunità formative, ma anche per i concreti sviluppi di carriera.
A fronte di un tale quadro, il sistema di protezione sociale ufficioso è incentrato sulle provvidenze erogate dalla famiglia di origine, che assume la veste di rete di protezione, essendo il sistema previdenziale ed assistenziale ufficiale concentrato e assorbito dalle pensioni e dalle tutele di un modello di rapporto di lavoro oramai residuale da un punto di vista socio-economico ma maggioritario ed esclusivo da un punto di vista rappresentativo (tramite la mediazione sindacale, è evidente).
Le stesse possibilità e scelte familiari di un giovane oggi sono determinate e ritardate dalla crescente insicurezza, sentimento al quale non fa da contraltare una necessaria fluidità del mercato del lavoro.
Ma se la posizione, in questo quadro, dei giovani in generale è particolarmente emblematica, la situazione delle giovani donne è ancor più grave.
Al quadro dipinto, infatti, si associano le conseguenze di genere tipiche del l’occupazione femminile.
Da vecchi liberali restiamo legati alle pagine di Stuart Mill sull’eguaglianza femminile, consci che la necessità di talenti non possa rinunziare stupidamente ad una significativa metà del cielo.
Oggi va di moda la womenomics, che per non essere un semplice tic linguistico deve prender atto che – a differenza delle comuni credenze – un maggior tasso di occupazione femminile non è un ostacolo alla natalità, bensì il contrario.
Gli indici di natalità tra paesi appartenenti a realtà omogenee, dimostrano come i paesi con tassi di occupazione più bassi e con un tasso di natalità inferiore sono quelli che hanno una copertura di servizi più bassa. Si pensi al ruolo che hanno i congedi parentali (negli ammirati modelli scandinavi, il congedo parentale maschile è visto quale incentivo per consentire alla donna di mantenere la propria estensione pubblica a fronte di una proiezione domestico-privata dell’uomo).
Su questi spunti di riflessione, basti un dato: se per gli uomini italiani il tasso di occupazione si colloca al 70,3 %, in media col dato europeo, quello femminile è pari al 47,2 %, sotto di 12 punti rispetto alla media europea (solo Ungheria e Malta hanno dati peggiori).
Queste generazioni, però, sono chiamate a sostenere gli oneri nella stessa misura degli altri, pur ricevendo molto meno oggi in servizi ed assistenza e – come spesso di dimentica – essendo destinati a ricevere ancor meno un domani, sotto forma di trattamenti previdenziali/pensionistici.
L’unico anestetico di questa tensione intergenerazionale è rappresentato dall’intervento delle famiglie, come abbiamo visto, con le conseguenza, però, che la mobilità sociale italiane resta praticamente inesistente.
Il nostro modello sociale di sviluppo giustifica la propria iniquità intergenerazionale delegando ai genitori il ruolo di rete di protezione sociale dei propri figli. Questi sono costretti a non potersi allontanare dalle famiglie di origine non per etica familistica, ma per necessità: sarebbe insostenibile acquistare sul mercato o chiedere allo Stato quei servizi che o sono fuori portata o non vengono semplicemente erogati.
Kant sosteneva che la cultura è lo strumento di emancipazione del singolo. Questo non è vero in Italia dove anche i maggiori sforzi per un adeguato livello di preparazione rischiano di essere vanificati dalla iniquità del sistema di protezione sociale.
Questa la verità dei fatti.
A questi e non allo spirito italico è giusto dare risposta.
La politica per troppo tempo se ne è dimenticata, salvo riempirsene la bocca, con sollecita puntualità, ad ogni tornata elettorale.