Venerdì 17 si “celebra” il ventennale di Mani Pulite, l’inizio delle inchieste di Tangentopoli, quando venne colto con le mani nel sacco (e le banconote nel water) l’amministratore del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa. E da lì cominciò la valanga. Era il primo “mariuolo” (secondo la definizione dell’allora suo leader,Bettino Craxi), ma di “mariuoli”, ovvero politici che rubano, la stirpe è tutt’altro che estinta, come dimostrano le cronache di questi giorni. Come il caso di Danilo Quinto, tesoriere dei Radicali, appena condannato dopo la denuncia dei suoi stessi compagni, oppure (vicenda ben più corposa e ambigua), la parabola del senatore Luigi Lusi, che da leader degli Scout cattolici si trasforma nel tesoriere rubacchione della defunta Margherita.
Il vero bilancio lo farà la Storia. E tuttavia l’impetuosa ventata moralizzatrice di quegli anni e la voglia sanculotta di ghigliottina, ricorrente e radicata, non ha cambiato il sottofondo di corruzione endemica. La politica, anche nella sua fisiologia istituzionale, ha perduto forza e rappresentatività a vantaggio di altri poteri nebulosi e non eletti, mentre nessuno, ma proprio nessuno dei partiti vecchi e nuovi o rinominati si è dimostrato immune da un coefficiente più o meno grave di disonestà. Non solo: ma l’atteggiamento di rimpianto e di disillusione che traspare dai protagonisti di quella stagione trasmette la sensazione che semmai il processo corruttivo (sempre più per interesse individuale che per ragioni collettive) è diventato sistematico, diffuso e sostanzialmente inestirpabile, con la contemporanea, preoccupante avanzata delle organizzazioni criminali nel cuore del tessuto economico del Paese.
Se si può tentare una riflessione, amara ma realistica, al di là delle appartenenze e delle tifoserie, tornano alla memoria le parole allora scandalose del procuratore Piercamillo Davigo, quando diceva che “l’Italia andava rivoltata come un calzino” e che “non esistevano innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”. A onor del vero(e per completezza di informazione) lo stesso Davigo dichiarava altresì di non amare la grancassa mediatica sulle loro inchieste e spiegava che l’intervento della giustizia serviva semplicemente a sanzionare la corruzione, ma che arrivava comunque “dopo” che i fatti erano stati compiuti e che il problema restava il “prima”, un ambito nel quale la magistratura aveva ben poco da incidere…
Ecco che allora diventa non inutile cogliere due aspetti culturalmente distorsivi che sembrano all’origine della persistenza del malaffare e che fanno ritenere con la forza della realtà quella stagione come una “lezione sprecata”. Il primo è certamente la sovraesposizione delle toghe, umanamente compiaciute dal seguito mediatico e dal prestigio sociale allora conquistato. Ma anche dalla convinzione di esser comunque la “guida morale” del Paese, con la ricorrente illusione di poter tenere al guinzaglio la classe dirigente e di poter orientare le azioni della politica e le scelte democratiche dei cittadini.
Il secondo aspetto è (si permetta di andare controcorrente) la “convenienza della illegalità”. Ovvero il vantaggio illecito che procura la corruzione (a cominciare dallo sfuggire alla competizione e alla concorrenza economica) sarà sempre superiore ai rischi e alle perdite che derivano dall’essere scoperti e inquisiti. Anche e soprattutto perchè i tempi biblici dell’iter giudiziario fino alla condanna definitiva procrastinano sempre più in là non solo la punizione e il discredito sociale, ma persino l’entità economica dei risarcimenti che si sarà eventualmente costretti a corrispondere. Di qui si spiega il successo e potere di tanti faccendieri e delle più diverse “cricche” che si annidano nei sottoscala del Palazzo, nei vertici delle burocrazie, nella “zona grigia” degli affari e degli appalti in qualche modo collegati alla Pubblica Amministrazione.
Di leggi e codici ce ne sono fin troppi. Ma è deviante sostenere od illudersi che si possa diventare “buoni e onesti per decreto”. Nel sano realismo che accetta la realtà profonda della natura umana, occorre rendersi conto che la vera deterrenza sta nel rendere “conveniente esser buoni e onesti”. E cioè, per andare sul pratico, semplificare al massimo le procedure e garantire una giustizia chiara, efficace e rapida, in modo che si crei, nel sentire comune, la consapevolezza che la scoperta è facile, il processo veloce, la sanzione e la pena certa e immodificabile.
Con nove milioni di cause pendenti, con le sentenze (dispositivi e motivazioni) che arrivano talvolta nel “tempo del mai” (con ritardi fino a sette anni) è evidente che la corruzione si riesce ad arginare se la giustizia fa subito il suo mestiere. E forse, nella rievocazione di Tangentopoli e dei suoi limiti, un “esame di coscienza” anche la magistratura potrebbe decidersi a farlo. Altrimenti il suo prestigio sociale e la pretesa di orientare nei fatti la politica diventa alla lunga il più classico dei boomerang…