sono quattro mesi quattro mesi sono centoventi giorni centoventi giorni sono duemilaottocentottanta ore che fa di tutto per mettermi in difficoltà per mettermi a disagio sì lo so che mi sto agitando ma vorrei che fossi qui anche tu perché non ti so spiegare come fa a mettermi a disagio ma lo fa e mi manca il respiro ma vorrei gridare e…
Scusa. So che così non capisci niente, non capisci perché io sia salito quassù con un fucile nonostante tiri il vento siberiano. Bastano dei respiri profondi e magari riesco a spiegarmi meglio. Se hai voglia di ascoltarmi. Ecco.
Mi chiamo Adamo. Nel bidone della carta uno dei miei sessantacinque condomini persevera a gettare i cartoni della pizza. C’è scritto, bello grosso, di non gettare carta per alimenti sporca. Significa che non sai leggere, o che non te ne frega un cazzo. Ecco, vedi, io penso che non gliene freghi un cazzo.
Me ne sono accorto quattro mesi orsono, quando sono venuto a vivere qui. Ero qui da trentasei ore e mi hanno rimproverato per la bicicletta legata alle inferriate, sul marciapiedi. Dicono che fa apparire il condominio come una casa popolare di Quarto Oggiaro. A me Quarto piace e non ho afferrato al volo l’allusione. Però la mia bicicletta dava fastidio, così l’ho messa a riposo, ma a me dà più fastidio trovare nelle spese condominiali la multa dell’amsa per la mancata raccolta differenziata che a causa di un menefreghista su sassantasei ci troviamo a pagare ciclicamente e puntualmente, quella mi dà fastidio sì non la sopporto come non sopporto tutta quella merda di cane le auto parcheggiate che non riesco ad accedere al cancello d’ingresso e i vicini che scopano e lei che guaisce come una cagna e io che devo stare zitto nel letto a far finta di niente ogni notte ogni notte da quattro mesi e non so se guardare con ammirazione il montone calvo o battere contro il soffitto come fanno loro ogni volta che ho ospiti perché disturbo il bambino che dorme nella stanza accanto a quella dove loro ogni notte guaiscono e…
Hai ragione. Scusa. Non ti ho ancora spiegato perché son salito qui sopra. Col fucile. Voglio farla finita. Questa città sta facendo di tutto, di tutto, ti giuro, per farmi perdere il controllo. Io vorrei chiedere a Dio solo quell’atmosfera di serenità da sitcom americana. Mi piacciono i telefilm, perché risolvono sempre tutto e fanno ridere. Io non rido più e non faccio ridere più nessuno. Non frequento più nemmeno i miei amici. Ho paura, no, scusa, fastidio, di tutto. I pedoni che attraversano col rosso, le auto che sgasano, i locali pieni, le persone che mi tagliano la strada… è una questione di rispetto, capisci, di rispetto. Che alla gente non importa niente di niente che non sia essa stessa. Non è il sale a corrodere le strade, è l’aridità dell’essere metropolitano. Questa città è diventata un grosso cacatoio dell’evoluzione. Sembra costruita apposta per involvere la specie. Ecco, io non scorgo un futuro. Per questo sono salito qua in alto, forse, per guardare un po’ più lontano e vedere se riesco a scorgere il domani. Ma i politici mi hanno tradito, le istituzioni hanno mollato. La cultura viene sepolta una manciata di fango la volta. Sembra una città di ciechi, come in una puntata di Kenshiro. Pensano tutti solo a quel che hanno sottomano e vicino alla bocca. Pisciano tutti controvento. E non mi vedono. Non pretendo di essere importante, di essere notato. Ma almeno di non essere calpestato. E Milano mi calpesta ogni giorno. Continuamente.
Forse è per questo che son salito qua sopra col fucile: per vedere Milano mentre mi faccio saltare le cervella. Come la Ballata dell’Amor Cieco, forse Milano s’illude di vedermi morir contento. L’avevo amata, ma ormai sono disgustato. Ho un reflusso gastrico che ho paura di corrodere la canna del fucile quando me la infilerò in bocca. Come la pubblicità con lo spazzolino. Guardo la città contorcersi ai miei piedi. Scarto il giornale attorno al mio fucile, l’ho avvolto per non allarmare i miei tanto amati fottutamente menefreghisti concittadini, ma penso che non avrebbero fatto caso a un uomo che passeggia con un fucile a tracolla, comunque. Scarto il fucile, e tra i cartocci scorgo un articolo: Oleg Fedchenko, il pugile ucraino che due anni fa decise di uccidere a pugni la prima persona che avrebbe incontrata per strada, massacrando una donna filippina ignara di questo suo proposito e delle sue motivazioni, è stato giudicato incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Come dubitare della capacità di intendere e di volere di Hitler, di Pacciani, di Anders Breivik: saranno mica stati normali, lucidi, questi qua. Sarà mica stato normale, Erode, sarà mica stato normale il cannibale di Rotenburg, il mostro di Milwaukee, Wolfgang Prikopil, il mostro di Rostov. Disposti, per Oleg Fedchenko, cinque anni di cure in un ospedale psichiatrico.
Guardo la città, i suoi rumori superflui, i suoi fumi sulfurei, le sue luci artificiali, i suoi abitanti artificiosi, le sue braccia impotenti, le sue menti corrotte, il suo sangue sempre venoso. Il suo odore infestante. Infilo la canna del fucile tra i denti. Un’illuminazione.
Punto il fucile su Milano. Sono capace di intendere e di volere, io. Ma sono sicuro che mi concederanno la legittima difesa.