Ieri ho letto un estratto dell’intervista che Elsa Monti ha rilasciato a Chi (sinceramente, non me l’aspettavo dalla signora Elsa, nonostante io per una settimana all’anno – le vacanze – sia una fervida lettrice delle lettere – spero finte – che i lettori mandano alla rubrica di Carlo Rossella su Chi, ma per l’analisi sulla faccenda vi rimando qui http://www.linkiesta.it/signora-monti-intervista-chi) e mi è subito caduto l’occhio sulla faccenda delle cravatte: Silvio Berlusconi, grande estimatore delle cravatte E.Marinella fin dai tempi del G7 napoletano – correva l’anno 1994 – avrebbe regalato le cravatte del suo marchio prediletto a Monti che, illuminato sulla via di Damasco dello stile all’italiana, avrebbe cambiato rotta, cedendo al loro fascino indiscusso.
La scorsa settimana mi sono occupata di una analisi sul settore cravatte, pubblicata su Moda24 del Sole24Ore. Consumi non certo da record, specialmente in Italia, crisi diffusa, export a cui aggrapparsi.
Una delle case history pubblicate è proprio quella di E.Marinella, che oltre a Berlusconi e Monti, diciamocelo, ha vestito l’illustre collo di Kennedy, Luchino Visconti, Clinton e tanti altri.
Se siete interessati alla loro storia, una delle good practice del made in Italy da quasi 100 anni, eccola qui:
«Realizziamo 180 cravatte al giorno, ma la richiesta è di 800. Lavoriamo al massimo sia nei nostri laboratori, a Napoli e nei pressi di Salerno, sia nei nostri negozi. Dal primo che abbiamo aperto, quello di Napoli, al più recente, quello di Londra». Maurizio Marinella risponde al telefono proprio dal negozio a Napoli, sulla Riviera di Chiaia, dove suo nonno Eugenio aprì nel 1914 una bottega di 20mq ed oggi gli appassionati delle cravatte arrivano in una sorta di pellegrinaggio d’acquisto 12 mesi all’anno. Marinella in quelli che sono quasi 100 anni di attività – «li compiamo tra due anni: un bel traguardo» ha vestito i colli più importanti del mondo: dai presidenti Usa – tra i clienti affezionati vanta John Kennedy e Bill Clinton – ai registi come Luchino Visconti. Un pubblico variegato, sia per età sia per nazionalità che ha permesso all’azienda di resistere alla crisi: «Lo scorso anno abbiamo registrato un piccolo incremento del giro d’affari» commenta Marinella.
La clientela – per l’85% italiana e per la restante parte divisa tra Giappone, Stati Uniti, Spagna, Francia – apprezza in primis l’artigianalità delle cravatte E.Marinella e il loro stile, inconfondibile ma anche attento ai cambiamenti: «La cravatta che si vende di più in assoluto è quella a motivi geometrici, oppure a micro fantasie – dice Marinella –; parlando di colori, il blu trionfa sempre, ma avvicinandosi la primavera abbiamo ottimi riscontri anche sull’ azzurro e sul giallo. Lilla e viola, nuances molto gettonate negli ultimi anni, stanno invece perdendo terreno». In tema di forme, invece, non ci sono dubbi: «Vince quella classica – dice – anche se, specialmente i ragazzi giovani chiedono modelli più stretti». A chi preconizza la fine della cravatta, Marinella oppone proprio i giovani clienti: «Amano indossarla. Anche mio figlio che ha 17 anni la mette, magari alle feste, sdrammatizzandola o portandola nel taschino».
Lontano dai grandi numeri, Marinella – che fa capo a 5 negozi con sede a Napoli, Milano, Lugano, Londra e Tokyo – non sente la concorrenza dei grandi marchi della couture internazionale: «Noi rimaniamo una produzione di nicchia, focalizzata sul fatto a mano e sulle cravatte su misura – dice – il nostro obiettivo non sono tanto i fatturati enormi quanto l’essere espressione di una Napoli che lavora e produce». Il futuro? Un’incognita da affrontare pian piano: «Abbiamo sempre optato per una politica fatta di piccoli passi che, fino ad oggi, si è rivelata corretta: continueremo così. Non possiamo inseguire le aziende che aprono 15-20 negozi l’anno: non terremmo il ritmo sulle produzioni. La Cina? Se troviamo il partner giusto perchè no. Per ora siamo a Tokyo: i giapponesi amano molto i nostri prodotti».
Da: IlSole24Ore, Moda24. Venerdi 24 marzo 2012.
Che Monti porti un po’ in giro le cravatte italiane, di fatto, non è poi una cosa negativa.