Il recente decreto sulle liberalizzazioni ha fatto molto discutere per aver ridotto a 5 miglia il limite per le perforazioni in mare da parte delle compagnie petrolifere.
La recente emergenza gas e la riapertura temporanea delle centrali a olio combustibile di Livorno e Piombino ci ha messo ancora una volta davanti alla nostra dipendenza dai combustibili fossili.
In un modo o nell’altro, insomma, sembra chiaro che non riusciamo ad affrancarci dal petrolio e continuiamo ad esserne in qualche modo schiavi. La logica vorrebbe che gradualmente si ponesse fine a questa dipendenza, nella produzione di energia così come nei trasporti, ma si procede molto lentamente.
Una miniera di sabbie bituminose in Alberta_Canada (Foto Andrea Lepore)
Intanto, però, mentre qui continuiamo a consumare e importare petrolio, nel resto del mondo intere popolazioni ne sono consumate: i popoli del Delta del Niger vedono i loro territori infangati dai tubi marci delle multinazionali e soffocati dai gas in fiamme; gli indigeni delle First Nations canadesi tentano invano di difendere le loro foreste, violentate dalla furia estrattrice delle nuove sorelle del bitume. Basterebbe molto di meno per convincerci ad affrancarci da questa forma moderna di schiavitù.
Ad ogni azione corrisponde una reazione violenta delle multinazionali. Basta guardarsi intorno. Non è un mistero, del resto, che l’aumento del prezzo del petrolio, imposto dalle compagnie petrolifere, è considerata una delle cause scatenanti della crisi dell’euro nell’Europa meridionale, completamente dipendente dai combustibili fossili. Una mossa che sta tenendo in scacco l’economia mondiale.
(Questo pezzo è pubblicato anche sul numero 1 della rivista RadioGiornale)
A.L.