In Italia ci sono i terroni e i polentoni. A Hong Kong ci sono le locuste.
E’ così che i locali apostrofano i cinesi della madre patria, il dragone rosso, che sono sbarcati e continuano a farlo in questi ultimi quindici anni. Da quando cioè Hong Kong è tornata cinese, o almeno in parte.
In queste settimane di permanenza in questa isola felice, dove tutto brilla, o quasi, e dove tutto funziona alla perfezione, girando per le strade affollate e rumorose mi sono accorta di quante donne incinta ci fossero.
Mi sono detta che forse il mio personale desiderio di maternità mi stava offuscando la mente oppure che durante l’inverno con il freddo è bello starsene sotto le coperte e ‘operare’ per costruire una famiglia nella quale il nuovo, o la nuova, componente potrebbe nascere in estate o nel primo autunno.
Poi, però questi ragionamenti romantici e non provabili scientificamente sono stati spazzati via da una pubblicità che un amico mi ha fatto vedere. Uscita il 1 febbraio scorso su giornale locale,l’ Apple Daily, riportava a tutta pagina le lamentele di alcuni cittadini – che hanno comprato una intera pagina – rispetto al numero troppo elevato di puerpere che dalla Cina vengono a partorire a Hong Kong. Nella pubblicità una grande locusta offuscava il famoso skyline locale.
E così tutte quelle pance hanno trovato una spiegazione.
Partorire a Hong Kong significa, infatti, dare ai propri figli lo status di residente permanente in quello che per i cinesi cinesi – ovvero coloro che arrivano dalla madre patria – vuol dire offrire ai propri eredi una educazione migliore, una sanità più efficiente e un futuro lavorativo più sicuro. I dati parlano chiaro nel 2001 i bimbi nati da genitori non residenti a Hong Kong erano 620 mentre nel 2011 si è arrivati ad oltre 35 mila. Un boom a tutti gli effetti.
E così gli ospedali pubblici locali si sono ritrovati a dover fermare le prenotazioni da questo mese perché non hanno più posto e devono prima di tutto tutelare i residenti. Eppure dietro questo ‘turismo prenatale’ ci sono anche meri motivi economici per i quali al sistema di sanità privata di Hong Kong fanno molto comodo i soldi dei cugini cinesi.
I più abbienti, infatti, arrivano nelle cliniche private e se ne ritornano a casa con un bel bimbo o bimba direttamente con carta d’identità da hongkonger. I meno ricchi si accontentano di prenotare, se riescono, oppure quando la gravidanza non è ancora evidente le future mamme, dotate di visto turistico valido per alcuni mesi, si stabiliscono in piccoli hotel economici e attendono il gran giorno. In altri casi stanno ai confini della SAR, regione amministrativa autonoma come è definita dal 1997 Hong Kong, dove non ci sono ospedali e per partorire si deve solo attraversare il confine verso il Paradiso di nome Hong Kong.
Ovviamente non poteva mancare chi su questo ‘turismo’ ci ha fatto un business, al di fuori delle cliniche private, e si tratta di speciali agenzie che fungono da intermediarie per agevolare le nascite. Il Dipartimento dell’Immigrazione di Hong Kong ne ha rilevate circa 50 in Cina e 20 nella Grande Mela Gialla.
Insomma, una sorta di assicurazione per la vita, è quello che fanno queste coppie cinesi in attesa dei loro pargoli. E come biasimarli, infondo un genitore pensa sempre al bene della propria prole.
Il problema è che i residenti locali proprio questi cugini non li sopportano, e a parte apostrofarli con nomignoli tratti dal mondo animalesco non è raro assistere nei negozi e nella metro a strani battibecchi o occhiatacce mirate a sottolineare la ‘rozzezza’ dei mainlanders cinesi, che tra le altre parlano un’altra lingua. A Hong Kong infatti si parla cantonese mentre i cugini cinesi usano il potongua ovvero il cinese tradizionale e i locali sono molto preoccupati di perdere la loro identità linguistica e culturale che ad oggi li rende diversi e unici, a detta loro.
Quindi ora che giro per la città e vedo tutte queste fiere pance non mi stupisco più e aguzzo la vista per capire se si tratta di locuste o meno.
Hong Kong è anche tutto questo.