Bitchiness gets you everywhereA 15 anni dalla scomparsa Jeff Buckley rivive nell’incompiuto “My Sweetheart The Drunk”

Era il tardo pomeriggio del 29 maggio del 1997 a Memphis, Tennessee, quando Jeff Buckley, stilla di talento incontaminato nel caotico panorama musicale degli anni ’90, finì tragicamente per dissolv...

Era il tardo pomeriggio del 29 maggio del 1997 a Memphis, Tennessee, quando Jeff Buckley, stilla di talento incontaminato nel caotico panorama musicale degli anni ’90, finì tragicamente per dissolversi annegando nelle acque del Mississippi davanti agli occhi increduli dell’amico Keith Foti, che lo stava accompagnando agli studi di registrazione.

Jeff aveva in mente di fare un bagno nel fiume, si immerse con gli abiti ancora addosso, e rimase vittima di un banalissimo incidente all’età di 30 anni mentre intonava – si racconta – le note di “Whole lotta love” dei Led Zeppelin.
Nessuna morte misteriosa, quindi, per il figlio di quell’artista maledetto, Tim Buckley, che al contrario si spense nel 1975 per overdose di eroina. Né alcol, né droga, né suicidio per Jeff. E il caso fu presto archiviato, tra le malcelate insofferenze di chi desiderava leggere a tutti i costi, nell’evento della sua prematura scomparsa, una ragione sciocca e stereotipata per immortalarlo come “mito”. Come Jim Morrison, Kurt Cobain, o suo padre Tim. Quasi che non bastasse una voce d’angelo e delle melodie che ben poco hanno di terreno a renderlo indimenticabile. Come se la sua promessa da talento incompiuto, quel genio screziato di qualcosa di molto vicino alla disperazione, non fosse sufficiente a renderlo un personaggio “di culto”.

Jeff Buckley si trovava a Memphis ormai da qualche mese, ed era impegnato con le sessioni di registrazione di “My Sweetheart The Drunk” (iniziate senza successo con il produttore Tom Verlaine a Manhattan nell’estate del ’96) presso gli studi Easley McCain Recording. Al momento del tragico incidente che ne causò la morte, Jeff aveva appuntamento con la band in arrivo da New York: il lavoro rimase quindi inconcluso e fu pubblicato postumo dalla Columbia Records nel maggio del 1998 come album doppio dal titolo “Sketches for My Sweetheart The Drunk” grazie alla madre di Jeff, Mary Guibert.

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Nell’inverno del 1997 Jeff Buckley presentò dal vivo alcuni dei brani destinati a “My Sweetheart The Drunk” in occasione dell’anniversario della Knitting Factory e poi ancora, nel febbraio del 1997, all’Arlene’s Grocery di New York: “Jewel Box“, “Morning Theft“, “Everybody Here Wants You” e “The Sky is a Landfill“. Trasferitosi a Memphis sperimentò nuovamente dal vivo gli inediti al Barristers’Bar, ma la risposta del pubblico non fu delle più entusiasmanti: i fan reclamavano a gran voce i brani di quel capolavoro di perfezione e intensità quasi religiosa che è Grace (1994).

Ma Jeff Buckley è lì, presente con il suo vivido genio negli sketches di “My Sweetheart The Drunk”. Lo si avverte nelle note di una chitarra strappata in “Your flesh is so nice”, nella splendida cover di “Yard of blonde Girls” di Audrey Clark e Lori Kramer, e nella voce strozzata di “Gunshot Glitter”.
La promessa di un disco, rimasta allo stato di un progetto musicale ancora grezzo e incompleto, è allo stesso tempo quanto di più vero e spontaneo ci abbia lasciato in eredità la sua anima fragile.

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