Eta (senza Beta)Invito a un capolavoro

Devo confessare una certa riluttanza, che non mi fa davvero onore, a condividere l’entusiasmo diffuso per la letteratura latinoamericana (ma ne eccettuo evidentemente Borges, e il meno conosciuto m...

Devo confessare una certa riluttanza, che non mi fa davvero onore, a condividere l’entusiasmo diffuso per la letteratura latinoamericana (ma ne eccettuo evidentemente Borges, e il meno conosciuto ma notevolissimo José Lezama Lima di Paradiso, segnalatomi tanti anni fa dal mio allievo e amico Javier Barreiro); legato come sono a letterature che poggiano su principî del tutto differenti, faccio fatica a entrare in quei testi. Dico questo per motivare, sempre a mio disdoro, l’indugio a entrare nella lettura del Grande sertão di João Guimarães Rosa, suggeritami qualche tempo fa dal mio amico e compagno di salite in montagna Lucio Cereatti. Conoscendo il gusto raffinato e la non esibita, perciò solida, cultura di quest’ultimo, mi sono infine deciso a prendere il mano il romanzo, e dire che non ne sono rimasto deluso è usare un eufemismo sedativo. Si tratta certamente di una prova maiuscola, in ogni senso. Meglio che il lettore lasci perdere le definizioni preconfezionate. Se ne trovano a iosa: il Joyce del Brasile, il maestro del realismo magico sudamericano, ecc. La prima è del tutto strampalata, come ogni sistemazione fatta con righello e compasso manualistici; la seconda, assai più diffusa, è altrettanto perniciosa, perché con l’aria di dire qualcosa di definitivo, non introduce in alcun modo alla specificità dei testi (infatti scoppia come una bolla di sapone a confronto con essi).
Nato nel 1908 e morto nel 1967, Guimarães Rosa ha esercitato la professione di medico, ed è stato ambasciatore in Europa e America Latina (con ciò aumentando il già cospicuo debito che la letteratura ha contratto coi suoi eslege). Chi vorrà intraprendere la lettura del Grande sertão dovrà armarsi di pazienza, perché il contatto con le prime pagine mette in difficoltà. Il lettore non tarda a capire che il monologo del bandito (jagunço) Riobaldo, degradato Faust moderno in perenne interrogazione su male e bene, andrà avanti per tutto il libro (poco meno di 500 pagine nell’edizione Feltrinelli, tradotta, a mio avviso magnificamente, da Edoardo Bizzarri). È una sorta di confessione-relazione a un personaggio che si intuisce di un certo peso (forse giuridico-politico?), che rimane sempre fuori campo. La ininterrotta catena di vicende narrate dalla voce di Riobaldo, una volta che si sia accettato il patto narrativo, affascina in modo incancellabile. Frasi taglienti e mozzate si alternano a intense sequenze descrittive, crudi referti di eccidî sono compensati da slarghi amorosi tanto più ammalianti quanto più contenuti. Il fascino del libro è in questa ininterrotta altalena, che mai si interrompe, e che lascia stupefatti per la capacità dell’autore di variare in continuazione temi apparentemente già percorsi, e che invece si presentano ogni volta sotto luce nuova (per tutti, l’irrealizzata vicenda amorosa colla misteriosa figura di Diadorim, che si chiarisce solo nelle ultime, magistrali pagine, di rara potenza perché di trattenuta commozione).
Se si vuole fare esperienza della slabbrata etichetta del realismo magico, si leggano le pagine dedicate agli agguati notturni; qui la vera protagonista del libro è la natura sconfinata e minacciosa, carica di presagi e di segnali che il corpo umano deve imparare a decifrare, se non vuole perdersi. Il battito di ali degli uccelli notturni, il fruscìo della vegetazione smossa dai movimenti umani, aprono infiniti sgomenti e inattesi atolli lirici. Forse qui è la chiave del fascino del romanzo, che apre spazî insondabili a partire da una situazione di estrema e tragica concretezza. L’etichetta corrente è falsificante, perché tende a comporre in rosea conciliazione una frattura lacerante, che serpeggia dappertutto nell’oralità ininterrotta, e superbamente gestita nei suoi soprassalti, del racconto di Riobaldo. Un’unica avvertenza. Non si accosti a questo libro chi vuole dominare con sicurezza il racconto. Il Grande sertão è un romanzo fatto non per chi vuole avere sempre in mano la chiave degli eventi, ma per chi sappia perdersi in essi, per ritrovare la natura fatalmente ambigua della propria esistenza.

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