Città invisibiliRoma tradita da un’archeologia incompiuta

L'archeologia italiana nel suo complesso, generalmente avanza tra sempre maggiori difficoltà senza una politica di crescita. Priva di guide al contempo autorevoli e competenti, capaci di creare dis...

L’archeologia italiana nel suo complesso, generalmente avanza tra sempre maggiori difficoltà senza una politica di crescita. Priva di guide al contempo autorevoli e competenti, capaci di creare discontinuità rispetto al recente passato. A mostrarsi consapevoli che sia più che necessario, vitale, provare a vedere lontano. Uscendo finalmente dalle vesti indossate dai protagonisti de La parabola dei ciechi, il dipinto realizzato nel 1568 da Pieter Bruegel e conservato nelle Gallerie Nazionali di Capodimonte. Smettendo di essere ciechi che guidano dei ciechi. Roma, soprattutto, avrebbe bisogno di un’archeologia “forte”. Non soltanto per il vero, ma stra-abusato leit motiv della città dallo strordinario patrimonio culturale, per il suo turismo e quindi la sua economia. Ma anche, in fondo, per la sua stessa credibilità.
Nel discorso Sulla conservazione dei monumenti di Roma, pronunciato nell’adunanza solenne dell’Accademia dei Lincei il 9 maggio 1886, Rodolfo Lanciani difendeva l’operato delle istituzioni e degli specialisti preposti alla documentazione e alla tutela del patrimonio storico di Roma. Alla rivendicazione di quanto positivamente fatto si accompagnava la consapevolezza dell’eccezionalità della condizione archeologica e monumentale di Roma. I rischi e le opportunità offerti dalle trasformazioni in atto e l’aspirazione a strumenti di tutela, legali, amministrativi e tecnici, liberi da ogni potenziale condizionamento politico e finanziario. Dopo più di un secolo, é più che evidente che l’auspicio di uno dei più grandi archeologi romani é andato deluso. Anzi, forse è stato tradito. Lo indiziano con tutta evidenza le tante storie, che emergono dall’indistinto magma delle numerose e differenziate attività coordinate dalla Soprintendenza archeologica statale. Storie nelle quali meriti e demeriti si confondono sempre più, col passare del tempo, al punto da impedire talvolta di ricostruirne le fasi. Storie di apparenti debolezze e di incontrastati atti di forza, nelle quali a perdere é più di ogni altro la Città.
Si può partire dall’area centrale. Via dei Fori imperiali, cantiere del Foro della Pace, a contatto con la Basilica di Massenzio. Qui le indagini, avviate nel 2000 e terminate nel 2007, hanno permesso di rilevare la presenza dell’aula di culto e di un tratto del vicus ad Carinas, la strada che metteva in contatto la via Sacra al quartiere delle Carinae. Indagini straordinarie per informazioni fornite e per capacità degli archeologi sul campo. Nulla, credo, sia possibile obiettare in quanto alla scientificità dell’operazione. Dubbi, invece, sorgono, quando ci si avventuri nella ricerca dei benefici apportati alla comunità dei più. Insomma quella costituita dalla larga schiera dei non specialisti. Allora i dubbi sono più che legittimi. Perchè a considerevole lasso di tempo dal termine dello scavo, quell’area continua ad essere chiusa. Impossibile visitare i resti di quelle strutture. Osservare il sovrapporsi di strati nelle sezioni di terreno ai lati dell’area, provare a capire una continuità tra parti di resti ormai divise. Così, impossibile orientarsi tra cortine murarie in tecniche differenti, immaginare relazioni spaziali e temporali con quanto emerso nel più vasto scavo, realizzato in precedenza, nell’area adiacente, dalla Soprintendenza Comunale. Tutto questo e molto altro rimane interdetto ai tanti, italiani e stranieri, che, incuriositi, si chiedono che sia quel “buco” accanto a Massenzio. Una curiosità senza possibilità di risposta. Da tempo e chissà ancora per quanto. Senza neppure una pannellistica che almeno spieghi, certo per grandi linee, cosa ci sia dentro quel “buco”. Che diviene esempio negativo di gestione dei Beni Culturali. Paradigma di un modello che si trova fuori dal sistema perché spesso fa di tutto per non farne parte. Come è possibile che a distanza di così tanto tempo dal termine delle indagini di scavo, quell’area rimanga ancora off-limits? Sembra quasi che oltre a svolgere le ricerche con le tempistiche necessarie ci si compiaccia di mantenere la propria potestà su un’area che, per posizione e importanza dei rinvenimenti é a tutti gli effetti “archeologica”. E quindi quasi “cosa” ad uso e consumo dell’organo che vi realizza le indagini. Dimenticando, forse, che la restituzione di un’area e la sua fruizione collettiva sono il naturale e imprescindibile esito dell’appropriazione temporanea di uno spazio pubblico nel quale si é realizzata un’indagine di pochi. Soprattutto per evitare che la recinzione, che nella sua provvisorietà indefinita ne perimetra l’area, divenga una barriera. Tra quel che é “dentro” e quanti possono accedervi e quel che è fuori. Il pericolo é che quel “dentro” e quel “fuori” continuino a rimanere staticamente nella loro posizione, di inutile attesa. Senza riuscire a comunicare. Sfortunatamente, senza, probabilmente, volerlo veramente fare.
Dal centro della città ad un’area più esterna, almeno rispetto al circuito murario di Aureliano. L’area degli ex Mercati Generali, lungo la via Ostiense, a breve distanza da Porta S. Paolo. Qui, Veltroni, l’allora astro nascente della politica di sinistra, nel 2003 si fece promotore de “La città dei giovani”, un progetto firmato da Rem Koolhas che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto garantire un luogo multifunzionale di aggregazione. Librerie e biblioteche, un palazzetto dello sport, cinema, negozi, ristoranti, due centri gastronomici, una grande mediateca e un centro fitness. In realtà, nella sostanza, un centro commerciale, come Porta di Roma, come Euroma. Le indagini archeologiche, realizzate non sull’intera superficie, hanno rilevato tracciati stradali e, soprattutto, una straordinaria opera di bonifica, presumibilmente connessa ad un utilizzo ad horti dell’area. Centinaia di anfore betiche, lusitane, ma anche africane, utilizzate, in vario modo, per rendere l’area parafluviale e quindi acquitrinosa, coltivabile. Un sito che, forse unico nel proprio genere, se non altro per la sua estensione, nell’intero ambito italiano, avrebbe meritato di essere conservato. Per tutti, ma forse, soprattutto, proprio per quei giovani ai quali sarebbe stato dedicata la cittadella veltroniana. I lavori a distanza di circa quattro anni dalla fine degli scavi non sono iniziati, anche se i resti scoperti all’epoca, furono sotterrati sotto circa 1 metro di inerti e stabilizzati dal passaggio di mezzi meccanici. Non sarebbe valsa la pena di provare a conservare, almeno in parte, quelle scoperte, rivedendo il progetto iniziale? Una domanda, certo senza risposta. Come molte altre.
A Roma non si chiede di diventare una città-museo, nella quale gli spazi del quotidiano divengano sempre più esili, continuamente erosi da nuove scoperte. La Città non può permettersi di smettere di esistere, di muoversi, in ossequio al suo passato. Sarebbe però necessario che le soprintedenze, comunale e statale, decidessero di farsi pars costruens di un discorso comune. Seriamente intenzionate a proporre soluzioni ai tanti problemi che certamente comporta la tutela e la salvaguardia di un patrimonio quasi infinito come quello romano. Con professionalità, opponendosi con fermezza nelle occasioni nelle quali é doveroso farlo. Con responsabilità, interpretando al meglio il ruolo di trait d’union tra Bene e utente. Non é un problema soltanto di risorse economiche sempre più esigue. Oppure di una burocrazia che rallenta e scoraggia piuttosto che agevolare ed incentivare. Forse si tratta di ruoli e di competenze. Forse si tratta di riacquistare l’autorità necessaria a contrastare abusi e distruzioni. Un’autorità che sappia allontanare ambulanti e centurioni dalle vicinanze del Colosseo, ma anche restituire alla comunità aree da troppo tempo interdette.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club