“Le metropoli, nella loro crescita disordinata, presentano forme ormai esaurite, incapaci di contenere il nuovo nella giusta proporzione. Il borghese si avvede dell’inadeguatezza della città solo quando la sua automobile è ferma in coda a lunghe file nella circolazione ormai ostruita, ovvero quando non trova più spazio per il parcheggio. Non sa che era già vecchia per l’operaio il quale non trova casa che a due ore di distanza dal luogo del proprio lavoro.” –Adriano Olivetti, 1958- (*)
Mi è servita Roma per incontrare Adriano Olivetti ed è forse grazie a Roma che mi pare di capirlo.
Perché di tutte le contraddizioni che più mi feriscono e mi interrogano nella capitale il problema della casa le batte tutte.
Se è vero che caffè e brioche qui costano ancora 1,20 euro altrettanto è vero che l’affitto di una casa costa il doppio almeno di quanto si possa immaginare in Friuli. Per non parlare poi dei prezzi per comprarla, dal centro fino ad arrivare alle periferie.
Le storie di sfratti (2500 l’anno) e case occupate non sono i racconti di “poverini sfortunati”: diventano le storie di chi ti sta attorno, per un’inevitabile relazione che c’è tra stipendi precari nella loro miseria e affitti impossibili.
Così se il problema della casa a Nord Est magari è (ancora) racconto di condizioni particolari, qui è la norma, assieme alla norma di storie di vite in costante allerta tra appalti e subappalti per forniture di servizi alle aziende pubbliche in scadenza, aziende chiuse, livelli di benessere che diventano sempre più un ricordo, anche nei ragazzi più giovani.
E se l’abitare diventa un problema gestibile in uno spazio dilatato come quello di una piccola Regione, qui invece è un groviglio diffuso d’arte dell’arrangiarsi mista a speranze in bilico tra il non senso e il miracolo.
Mentre intanto i palazzi vuoti tali rimangono, come potesse essere effettivamente sintomo di un mercato sano l’allocazione di spazi pubblici per interessi speculativi privati.
Come se fosse davvero superiore, in valore, ai livelli minimi di dignità il diritto alla proprietà privata.
Spazi minuscoli diventano regge e le famiglie si adattano a far dormire i bambini sui divani in minuscoli buchi ereditati magari da qualche nonna, oppure si attendono miracolose chiamate dell’amico dell’amica del fratello del Segretario dell’assessore del Sindaco che potrebbe spingere per allocarti qualcosa del grande patrimonio comunale ancora sfitto.
E no, caro Nord, non fare quella faccia. Che qui le paghe derivano dagli stessi contratti che ci sono lassù. No, non c’è quel fancazzismo leggendario: è proprio un sistema che non ha senso: quando un paio di stanzette, un bagno e una cucina viaggiano sui 1000 euro al mese da dove li tirano fuori due “consulenti” con contratto a progetto a 1100 euro e un figlio da mandare al nido? O due soci di cooperativa a 900 euro, magari di quelle con le paghe sospese perché il Comune non rimborsa?
Mi ci è voluta Roma per capire cosa significhi sul serio il ricatto occupazionale come scelta cosciente. Perché se al nord ho imparato gli straordinari non pagati come abitudine di dimostrazione di una sorta di devozione al padrone come parte del contratto di lavoro, qui vedo i più miseri contratti diventare la norma contro un’alternativa che è il niente e la paura seria della strada. Non importa se fai quei lavori belli del terziario che qualcuno ritiene dovrebbero rilanciare l’Italia.
E una rabbia che bolle nel silenzio e nel timore diventa poco alla volta quotidianità, che “qui è il posto migliore dove potessimo sperare di lavorare”, mentre spalanchi gli occhi guardandoti attorno desolata e pensi che se lo dicono loro purtroppo forse è vero.
Qui dove i ricchi sono ricchi sul serio e concentrati a definire una geografia della città e dove per tutto il resto è quotidiana la lotta per un tetto, ecco, sembra ritornare agli anni in cui da bambini sognavamo quella pizza una volta l’anno e ci dedicavamo all’essenziale (per poi agirne un rifiuto ingenuo dopo il risucchio nel consumismo estremo del benessere anni 2000).
E oggi che non posso fare a meno di pensare ad altri che con il problema della casa combattono per altre ragioni, da L’Aquila all’Emilia, mi domando se anche in questo caso non si debba considera obbligatorio un canone concordato davanti a proprietà private, vuote e rimaste in piedi.
O è sul serio umanamente la cosa giusta lasciare al mercato la speculazione sugli affitti delle cose rimaste in piedi?
Uno dei problemi più affascinanti che a Ingegneria ti propinano in tutte le salse è l’arte magica di risolvere l’allocazione delle risorse.
A poco vale un algoritmo incapace di ottimizzare al meglio la memoria a disposizione, di qualsiasi tipo esso sia. Perché se c’è qualcosa di veramente prezioso nel mondo dei calcolatori elettronici, beh, è proprio la memoria, sia che si parli di RAM o disco fisso. Lo sanno gli sviluppatori di software, che devono saper scrivere codice che non collassi ad ogni aggiornamento del Sistema Operativo, lo sanno i sistemisti delle piccole e medie imprese, alle prese con server di posta intasati da mail che i propri colleghi vorrebbero poter spedire sempre più grosse e cartelle utenti che straripano di memoria digitale quasi sempre inutile.
Quei sistemi che allocano memoria senza farci niente soffocano la possibilità di velocità di tutti gli altri. Ne ostruiscono l’operato e non diventano affatto complici del calcolo del risultato finale.
E qui nel sistema operativo della nostra società, chi comprime la dignità altrui e ci specula ha una quota importante di responsabilità di quelle zavorre che ci fanno restare indietro e crescere piano.
(*) Adriano Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni di comunità