“Più che ai comuni, le Comunità concrete si possono avvicinare, per noi, alle Province, intese però in senso nuovo, che ne superi l’attuale artificiosità e ne aumenti il potere di autogoverno, nonché il numero rendendole più piccole.
La mancata realizzazione della Costituzione Italiana per quanto riguarda l’ordinamento regionale, ha impedito finora che la Provincia assumesse tutti quei poteri che le spettano come organo di decentramento della Regione.” -Adriano Olivetti, 1954- (*)
Chissà se nel 1954 Adriano Olivetti avrebbe creduto sul serio che si arrivasse a votare l’abolizione delle Province non in seno a una discussione sul riordino dell’impianto stesso dello Stato e delle sue funzioni, ma sulla popoluistica volontà di risparmiare.
E invece eccoci, per quanto in una condizione in cui poche cose paiono chiare pure alle province stesse, a veder smantellata una struttura senza che alle spalle ci sia stato un minimo dibattito di senso, di ragionamento sostanziale sul perché del compimento di una simile decisione.
Il non dibattito sul ruolo delle Provincie in Italia mi ha sempre lasciato interdetta: come può essere cancellare una soluzione migliore del far funzionare? Tanto più quando oggi si tratta di cancellare degli organismi per reinventarne altri destinati, per il modo in cui si presentano, ad operare con minori poteri del passato.
Olivetti e il Movimento Comunità interpetavano la Provincia come dimensione ottima per il superamento dei limiti dei piccoli comuni.
“A livello della Provincia comunitaria, della Provincia concreta, sarà possibile superare ad un tempo i limiti dei Comuni-piccoli e quelli delle grosse metropoli, instaurando un decentramento organico concepito in funzione della persona umana, in un quadro di armonia con la natura e di migliore ripartizione dei luoghi di residenza e lavoro.”
Inoltre, a democrazia appena compiuta, i limiti della democrazia stessa mostravano già le proprie forme:
“I Comuni, nella stra grande maggioranza, non hanno né uomini né mezzi per elaborare e attuare i loro ideali e i loro programmi; una rinnovata Comunità provinciale autonoma, invece, potrà dare un senso moderno all’autonomismo, interpretandolo come legame organico degli strumenti amministrativi con la vita economica (industriale e agricola), con lo sviluppo urbanistico e con la possibilità di un rinnovamento politico che non si limiterà ad una “difesa” dello Stato, ma che ricreerà dal basso e funzionalmente lo Stato stesso, portandolo ad esprimersi attraverso un’organizzazione federale delle Comunità.”
Oggi, dopo i rovinosi percorsi leghisti che hanno portato allo svilimento della parola stessa di Federalismo, durante una crisi che non solo semplifica ogni dibattito, ma anzi, lo cancella per evitare il rischio che si tramuti in scontro, le parole di Olivetti ci parlano di occasioni perdute.
Perchè dopo più di 50 anni i mali che caratterizzavano l’Italia di allora non solo non sono spariti, ma anzi, si sono acutizzati. E si è finiti col confondere l’incapacità amministrativa di un ente che comunque negli anni è stato politicamente, in primis, privato d’interesse, con la sua inutilità.
Dimenticando che l’incapacità amministrativa non si cancella con una legge, ma anzi, si mantiene negli altri enti chiamati a svolgere i propri compiti di governo del territorio.
Non sarebbe forse stata una scuola di formazione migliore la costituzione di province capaci di decidere in modo più sostanziale? Davvero crediamo che le Regioni possano dirsi enti beati capaci di gestire i territori e affrontare i tanti stati di crisi, siano essi naturali, economici, sociali, che le contengono?
Ecco, l’abolizione delle province (cosa che di fatto si verifica nel momento in cui verranno sostituite da altre entità) non risolve nessun nodo sostanziale.
E non credo neppure che quelli che oggi vengono definiti “risparmi” siano conseguenze che giustifichino l’operazione portata avanti.
A che serve tagliare da una parte quando poi l’altra in cui riverserai è probabilmente ancora affetta dal medesimo male?
Si può scegliere di risparmiare in molti modi. Magari aumentando l’efficienza, rilanciando un piano industriale per questo paese che sappia assorbire non solo la disoccupazione, ma anche l’onere che lo Stato si è preso assumendo parte della società che il sistema produttivo non sa inserire.
Però non si può credere di fare buona politica senza sviluppare un pensiero che guardi alla storia del nostro Paese e apra dibattiti capaci di coinvolgerne sul serio le territorialità pensanti.
Ah, ma dimenticavo: Adriano Olivetti era un ingegnere.
Gli ingegneri sanno solo contare.
(*) Le citazioni sono tratte da “La dimensione ottima dell’autogoverno locale” in “Città dell’uomo” Edizioni di Comunità. Ringrazio la Fondazione Olivetti di Roma per avermi dato la possibilità di ficcare il naso in ragionamenti altrui, tenuti troppo ai margini della contemporaneità.