Quando il sindaco di Bari cinguettò dall’interno di una conferenza a porte chiuse (mi sembra dell’Anci, ma non vorrei sbagliarmi) le agenzie di stampa si lamentarono: «e noi che ci stiamo a fare?». Quando Confindustria organizzò un’assise e Bergamo nel maggio dell’anno scorso l’ufficialità dell’associazione fu squarciata dai commenti su Twitter de @limprenditore («Parla Moretti di nota azienda che vive di mercato nel mercato: Fs» oppure: «Chi vogliamo rappresentare? Non possiamo essere Confitutto»). Insomma, addio eventi a porte chiuse. D’altra parte, il mondo, lo abbiamo capito, non è piatto come voleva Tom Friedman, cioè dal punto di vista di uguali opportunità di crescita per i suoi cittadini, ma semmai si sta orizzontalizzando dal punto di vista della sparizione delle mediazione.
Ecco, il pezzo di oggi di Mario Calabresi sulla twiplomacy, la diplomazia all’epoca di Twitter, fa un passo avanti nello spiegarci questa dimesione orizzontale, e il conseguente salto della mediazione, nell’arte della propaganda politica: «Abbiamo scelto twitter – spiega a Calabresi Susan Rice ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite – perché ci consente di raggiungere più fonti e parlare direttamente con le persone e nei nostri tempi i media tradizionali possono riprendere la notizia direttamente da lì».
Alcuni storcono il naso. «Nell’era della “twiplomacy”, è forse ancora attuale il semplice richiamo del grande storico inglese Herbert Butterfield al fatto che la diplomazia non è qualcosa per tutti, ma un’arte (appunto politica) in cui serve preparazione e qualità. In altri termini, il diplomatico ha urgente bisogno del “senso storico”» mi diceva oggi un collaboratore commentando l’articolo della Stampa. Sul senso storico sono d’accordo, ma non capisco perché questo debba essere in antitesi coi social. Piuttosto sono almeno due i punti che sorgono spontanei.
Il primo è che, mi sbaglierò, ma ho la netta impressione che fra pubblico e privato, se si parla dei social, sia il pubblico quello più avanzato. Mentre la politica sembra iniziare a capire l’importanza dei social, e, come si vede anche la diplomazia, le aziende sembrano più indietro. Tranne qualche esempio, come la famosa campagna pubblicitaria della Mars sul sito di microblogging che ha suscitato l’attenzione della Advertising Standards Authority e suscitato un vespaio, sono pochi gli esempi che mi vengono in mente di aziende che si stiano mettendo in mostra per il loro attivismo sui social. Vedo poche banche, imprenditori, società fare i conti in maniera sistematica con la novità. E quelli che incontro spesso sembrano più spaventati che eccitati dalla novità.
La seconda considerazione riguarda proprio la scomparsa della mediazione. Di per sé, sembra essere una grande chance di democratizzazione. Prendiamo ad esempio quello che scrisse Walter Lippmann in “Public Opinion” il celebre testo dove parlò di «fabbrica del consenso».
« Il singolo non ha un’opinione su tutte le questioni pubbliche…Non sa come dirigere i pubblici affari…Non sa che cosa succede, perché succede, che cosa dovrebbe succedere. Non riesco a immaginare come potrebbe, né esiste la benché minima ragione per credere, come hanno fatto i democratici mistici, che il mescolio delle ignoranze individuali in masse di persone possa produrre una forza continua che imprima una direzione alle questioni pubbliche […] Il pubblico deve essere tenuto al suo posto, non solo perché possa esercitare i suoi poteri, ma ancor di più per consentire a ognuno di noi di vivere libero dallo scalpiccio e dal rumore del gregge disorientato »
Ecco, il pubblico non è più «tenuto al suo posto», dilaga, invade, costringe al dialogo chi fino a ieri è vissuto di monologhi. C’è però un però. Nick Carr nel suo saggio “The Big Switch” raccontò di una ricerca su due gruppi di persone che per cinque anni si informarono solo in Rete. Il risultato fu che, dopo quel lasso di tempo, i due gruppi si erano così radicalizzati che non riuscivano più a parlarsi. Ognuno dei due gruppi era infatti andato solo a cercare conferme di quanto già pensasse. Un effetto deleterio della “coda lunga”. Che però può essere letto proprio anche alla luce della scomparsa della mediazione. Come spiegò il grande storico delle religioni George Dumezil, le religioni dove c’è una mediazione centrale tendono a creare meno radicalizzazioni. Vale per i cattolici rispetto ai protestanti (basta pensare ai radicalismi religiosi degli Usa), vale per gli sciiti rispetto ai sunniti (il terrorismo e le interpretazioni più estreme del Corano sono per lo più dei sunniti). La mediazione, spiegava, serve proprio a contenere le ali estreme.
Insomma, ben venga l’orizzontalità dei media e quella politica. È un grande passo avanti. Ma facciamo attenzione a che la sparizione della mediazione non crei radicalismi che tirano la volata al ritorno del monologo.