Se Giancarlo Gentilini e Roberto Di Piazza si perdessero un giorno a Roma, salissero sul 913 fino a ritrovarsi per caso in Piazza Nostra Signora di Guadalupe, a Monte Mario, si sentirebbero come minimo male. Ventotto panchine. Qui, in questa piazzetta da film, sedersi è un dovere. E si può scegliere cosa guardare: sono disposte in ogni direzione.
Altro che l’eliminazione di ogni punto dove poter far riposare le gambe, come l’ex sindaco leghista s’ingegnò di fare anni fa a Treviso, altro che strani cubi dove sedersi solo in caso di necessità come tentò di fare l’ex sindaco di Trieste nel suo ultimo mandato!
Queste sono panchine di pietra saldamente posate sui sanpietrini: dove sono restano e sembrano dire: “Non provate a spostarci”.
Quando sono finita a vivere qui è stato vederne la piazza a farmi sorridere: ecco com’erano i paesi 40 anni fa, ecco la comunità fatta geografia. Ecco il quartiere, quella cosa che per me aveva fin’ora avuto vita solo nei film.
La chiesa, arancione, sembra controllare tutto e tutti: i signori anziani nell’angolo a destra, che discutono di calcio, pensioni, vita militare e cartelle Equitalia (e non a caso minuscoli frammenti di una di queste hanno svolazzato per giorni lì attorno), le signore col bastone e i capelli bianchi al centro, certi signori vecchissimi, col cappello, poco più in là, vicino al baretto, guardano avanti come verso l’infinito, effetto dell’ultimo bicchiere di vino dei castelli o inevitabile malinconia. Ogni tanto si distendono e si addormentano e nessuno si indigna o ci vede qualcosa di strano.
In fondo, dove l’ombra si allunga prima, si radunano giovani coppie con le carrozzine, mentre una mamma controlla per tutte i più piccoli che si rincorrono, un giovane padre dai tratti bengalesi prova a fare una foto al suo piccolo che muove i primi passi e intanto i ragazzini usciti dal catechismo sono già in preda alla furia calcistica.
Un gruppo di giovani under 30 presidia il muretto con il tricolore: “Giustizia per Gabriele e De Falchi” ci hanno scritto, in ricordo dei due tifosi uccisi, uno laziale e uno romanista.
PGU Roma hanno poi scritto ovunque, Piazza Guadalupe Ultras, che, a sentir in giro è cosa rara.
“A Monte Mario tutti tifano Lazio, sapevo io” mi spiega il portinaio dove lavoro. “Eh, vuol dire che in giro ci sono ancora bravi ragazzi” aggiunge soddisfatto.
Già, per fortuna l’informatica è una cosa ancora da uomini e qualcuno cortese mi ha spiegato come funziona nella capitale onde evitare figuracce: curve, laziali, romanisti sono ormai termini definiti nel mio personale vocabolario.
“Qui c’è tutto, la pasticceria, il supermercato, la pizza al trancio, il bus che va in centro, se proprio uno deve, dico io, è come stare in paese, Monte Mario” mi spiega una ragazza conosciuta qui “Anche se, devo dir la verità, ho visto che su Google qua scrivono Sant’Onofrio e mettono la scritta Monte Mario più in là: ma non lo dire a mio padre che si piglia un colpo”.
“Qui è come stare al paese” mi spiega il giorno dopo il padre dell’amica “tutti alla fine sanno tutto di tutti…” quasi ad farmi capire come mai la parrucchiera non si è stupita quando le ho detto “vengo da Pordenone”.
Solo che nei paesi da dove vengo io, oggi, di panchine non ce ne sono quasi più e le piazze grandi, nuove, livellate, servono magari per organizzare un concerto l’anno, la fiera con le bancarelle e poco altro.
A Nord Est sono ormai piazza vetrina e le anziane, costrette ad indossare le ciabatte per sopravvivere ai piedi gonfi, si vergognano ed escono solo per il mercato.
Mentre qui, durante la grande nevicata di febbraio, è stata una grande festa per tutti: mentre i cancelli gelavano con la neve che mutava in ghiaccio tutti invadevano la piazza e facevano incontrare sorrisi. Tutti: dall’infante al più vecchio in un tripudio di palle di neve.
A piazza Guadalupe sul muro che costeggia la chiesa c’è una svastica, come un po’ ovunque. “Diffondi il verbo di Dio” c’è scritto. Speravo che a qualcuno venisse voglia di ridipingere il muro, che il prete s’indignasse, invece è ancora lì, da mesi. Nella piazza che osserva crescere ogni generazione, ogni genere, ogni lingua, ogni stile di vita nessuno pare vederci qualcosa di male. Ne hanno disegnata pure una vicino a un capitello, col crocefisso: ogni giorno qualcuno cambia l’acqua ai fiori come se niente fosse.
Come se ecco, fosse una di quelle cose che col tempo si cancellerà, la pioggia pulirà, perché metter fretta alle cose di natura?
Torno a casa ed ecco arrivare da fuori un odore d’infanzia: “Ho acceso lo zampironeee” mi grida la coinquilina, tanto per ricordare a tutta la via che è tempo di ricominciare a parlare del fastidio che arrecano le zanzare.
Saranno 20 anni che non la sentivo più, la parola zampirone.
In fondo anche in centro si son ricominciate a veder girare le espadrillas…