La prima volta che ho visto Alberto Musy, consigliere comunale torinese, avvocato, professore universitario, socio de linkiesta e amico di molti miei amici, era ormai tanto tempo fa. Prima di tutto, e ben prima che il 21 marzo scorso Alberto fosse vittima di un attentato che ancora oggi lo lascia in coma. Era ben prima, quel pranzo, che Linkiesta nascesse, quando ancora tra pochi amici si chiacchierava e vagheggiava di fare un giornale nuovo, diverso, solo online, e così via. Una volta, un comune amico e socio promotore di questa nostra storia imprenditoriale e umana, disse: “La prima volta che è a Milano incontriamo insieme Alberto”. Volevamo capire capire quanto le nostre idee milanesi e romane potessero funzionare anche nella sua Torino.
Di quel pranzo mi ero quasi dimenticato, come capita in momenti della vita in cui gli incontri si fanno fitti, le strette di mano vorticose, e le pubbliche relazioni finiscono col prendere a volte il sopravvento sulle relazioni. Ma quel pranzo mi è tornato in mente, stranamente, nei giorni di vacanza passati in Israele. Molte volte mi son trovato a pensare ad Alberto: alla prima volta che lo vidi, doveva essere addirittura l’autunno del 2009, o all’ultima volta che ci siamo incontrati già stabilmente legati – ormai – nel nome de Linkiesta. Ho fatto tutti quei pensieri patetici che vi risparmio, sulla sua sfortuna improvvisa e ancora oggi misteriosa, sulla fortuna di me che il mio agosto me lo stavo vivendo proprio come lo volevo, e così via.
Un pensiero non patetico, però, me lo tengo stretto: un paese serio, una città seria, un sistema serio, non si rassegna all’assenza di verità solo perchè son passati cinque mesi dai fatti. Vale per Alberto Musy, per tutti i piccoli e grandi misteri italiani, per le tante sacche nere del nostro sistema giudiziario in cui giustizia è sfatta. Così, da queste parti, non dimenticheremo Alberto Musy e le domande delle persone che gli vogliono bene perchè la sua storia oscura è la storia di un paese. Che è il nostro.