AppapàCriticare la Minetti in trikini Parah e mandare la figlia al concorso di bellezza

L'altro giorno su qualche prima pagina c'era il classico pezzo tappabuchi; posizione: fogliettone; testatina IL CASO, o LA POLEMICA, che poi è lo stesso. C'era scritto con preoccupazione che è torn...

L’altro giorno su qualche prima pagina c’era il classico pezzo tappabuchi; posizione: fogliettone; testatina IL CASO, o LA POLEMICA, che poi è lo stesso. C’era scritto con preoccupazione che è tornata alla grande, pare, la differenza tra giochi per bimbi e bimbe. Evenienza che militarizzerebbe i generi – semplifico il senso dell’articolo – e creerebbe già dalla tenera età una spiccata polarizzazione d’identità e troppa separazione tra sessi, in questo mondo così liquido, «fluido» come vedremo.

Ho pensato ai giochi della mia infanzia e a quelli delle mie figlie. Come spesso faccio quando cerco risposte, ho vagato nell’ordinata Babilonia dei miei ritagli e ho ripescato quel numero di Internazionale di qualche settimana fa con in copertina la domanda «Che male c’è se un bambino si veste da femmina?» – catenaccio: «Vogliono mettersi la gonna, giocare con le bambole e dipingersi le unghie. Ma non si considerano né maschi né femmine. Hanno un’identità di genere fluida. E una nuova generazione di genitori sta imparando a crescerli». Nella neonata sezione figliesca, capita anche di imbattersi in mini-saggi da incorniciare (su tutti questo di Walter Benjamin sulla Domenica del Sole24Ore) e magari trovare inaspettate frecce da conservare in faretra quando alle feste di compleanno ti trovi a parlare con quelle mamme che inorridiscono davanti alla Minetti in trikini Parah ma poi mandano le figlie ai concorsi di bellezza (leggete per esempio che bravo lui, sempre da Internazionale).
Poi – inerpicandomi per le traiettorie impervie che spesso segue il cervello quando cerca risposte che non troverà – sono approdato a quella che considero la vera barbarie dei tempi moderni (altro che giocattoli e cartoni animati): le pubblicità di moda per bambini, e dunque i capi griffati per bambini.
La mente è andata subito ad Armani jr, pronto ad aprire su Madison Av (un altro di quegli spot travestito da notizia che leggi nei trafiletti della Grande Stampa): ho pensato all’incanto dello shopping autunnale in famiglia nel sabato pomeriggio di Midtown ma l’idea stranamente non mi ha affascinato, come invece accade puntualmente con tutte le elucubrazioni che mi fanno planare nella Grande Mela; poi agli inserti dedicati alla moda per bimbi, quelli che ti propinano ben incellofanati e senza sovrapprezzo con le riviste femminili che compri a tua moglie. Piccoli modelli crescono, alla faccia della spending review. Il vero “problema”, mi sono chiesto, sono i prodotti (ognuno è libero di comprare ai figli ciò che vuole, e un capo griffato resta pur sempre un oggetto) o le pubblicità, quelle che trovi anche sui giornali liberal che poi s’impancano a censori contro la lascivia dei costumi di vallette e starlette e affini? C’è un fatto: stoffe animalier e tacchi su una bimba ma anche gilet sartoriali e gemelli su un bimbo producono un certo qual senso di straniamento – spero di non essere il solo a pensarla così.
‎Conclusione. Alle riviste-depliant preferisco ad esempio “Pupù”, l’inserto domenicale di Pubblico, pieno di illustrazioni e favole. Moralista o snob? Non lo so. Nel frattempo, e non è questione di gelosia, mia figlia a un baby-concorso di bellezza non ce la mando (anche se di qui a Miss Italia sarà sempre la mamma a decidere, lo so)!

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