Mi sono letto la ventina di righe che compongono quello che è stato generosamente definito un documento, approvato ieri dalla Conferenza delle Regioni e salutato dalla gran parte dei media come una sorta di rivoluzione. In realtà, eccezion fatta per la proposta di attribuire alla Corte dei Conti il controllo sulla spesa dei consigli, si tratta di un esercizio di puro politichese condito in salsa cerchiobottista. Per dare un contentino al popolo e non scontentare troppo gli appetiti delle regioni. E che dunque non affronta i nodi del problema degenerativo dello spreco di centinaia di milioni di soldi pubblici. Evitando di indicare origine e soluzione delle porcherie laziali e più complessivamente del drammatico sperpero di ingenti risorse avvenuto in lungo ed in largo per l’Italia. E segnalando, così, ancora una volta, la frattura netta tra le ricette delle attuali classi dirigenti ed i bisogni reali del paese.
La causa dei nostri mali, come è noto, è rappresentata da quella scellerata pseudo riforma del titolo V, partorita dal centrosinistra e approvata a maggioranza nel 2001. Che, senza creare le premesse per un sistema federale compiuto ed efficiente, ha ridisegnato in modo balordo e schizofrenico l’architettura istituzionale. Nella quale non si è mai capito cosa rappresentassero le Regioni e soprattutto chi facesse che cosa nel gran casino del riparto di attribuzioni tra i diversi livelli istituzionali. E dove i presidenti di regione si sentono capi di stato e per questo amano farsi chiamare governatori; i presidenti dei consigli regionali credono di essere presidenti della camera o del senato e si dotano di gabinetti che fanno impallidire quelli del Bundestag; e i consiglieri regionali, che normano poco e spesso e volentieri male, si fanno chiamare deputati.
Quello generato dalla riforma del 2001 è un sistema che ha prodotto confusione, conflitti insanabili tra regioni e stato, lentezza nei processi decisionali, burocrazia a non finire, moltiplicazione di centri decisionali, una moltitudine di professionisti del taglio di nastro, ma soprattutto dei mostri istituzionali. Perchè le dimensioni delle regioni, in termini di apparato burocratico, prima ancora che da un punto di vista dell’esercito di consiglieri e del relativo codazzo di assistenti e tirapiedi, sono pazzesche. Ed assolutamente sproporzionate alle funzioni esercitate, alla mole di lavoro da fronteggiare ed al ruolo marginale di governo del territorio che le regioni sono state chiamate a svolgere.
I riformisti cosa dicono al proposito? Per lo più balbettano. Bersani, nell’intervista di ieri al Messaggero parte bene, riconoscendo il fallimento della riforma del titolo V, ma poi, oltre ad allinearsi diligentemente alle posizioni del presidente della conferenza delle Regioni, è vaghissimo nel delineare un percorso risolutivo dei gravi problemi sul tavolo. Il suo competitor in ascesa Renzi, è, più o meno, sulla stessa lunghezza d’onda. Sfiorando il tema, in una sua enews, dopo aver definito bonariamente “discutibile la riforma” di cui sopra, non entra nel dettaglio delle soluzioni, limitandosi a sottolineare che le “Regioni devono cambiare […] e che “ne parleremo più diffusamente, non solo in campagna elettorale”.
Ci consoliamo con il buon Maurizio Fistarol, parlamentare del profondo nord, di cui ci siamo occupati qualche tempo fa in relazione alla sua proposta di istituire una agenzia delle uscite. Il senatore, tra i fondatori del movimento Verso Nord, ha capito, ben prima che scoppiassero gli scandali, che il tempo delle mezze misure è scaduto. Cosicchè il 1° marzo di quest’anno ha depositato un articolato disegno di legge che prevede la l’accorpamento delle Regioni e la riduzione di esse da 20 a 12, nonché un tetto al numero di consiglieri regionali – massimo 50 per le Regioni con più di 5 milioni di abitanti, massimo 40 per quelle con popolazione tra i 2 e i 5 milioni, massimo 30 consiglieri per le altre – che ne farebbe scendere il numero complessivo dai 1.111 attuali a 530. Una proposta di legge, quella di Fistarol, dettata non solo dall’urgenza di disboscare drasticamente costi impropri, ma, come si legge nella introduzione al ddl, dalla “necessità di avere istituzioni regionali in grado di esercitare un ruolo forte ed autonomo nel governo dei fenomeni economici e sociali […] e di poter cogliere le sfide lanciate dai mercati internazionali”.
In un contesto profondamente diverso da quello del 2001, connotato da una globalità in velocissima evoluzione, la vera sfida è proprio quella di attrezzare le istituzioni perchè sappiano cogliere, a vantaggio dei territori, le relative opportunità, più che subirne le peggiori conseguenze. Dovrebbe essere questo il punto di partenza di una riflessione franca su come ristrutturare e riorganizzare radicalmente le istituzioni regionali. Il dubbio fondato è che simili visioni possano fare breccia in questa classe politica, così distratta a destra dai festini ed a sinistra dalle primarie.