Ieri Alessia Glaviano, nel suo blog, si chiedeva se fosse proprio necessario mostrare le immagini di morti, come è accaduto per la foto dell’ambasciatore americano ucciso a Bengasi. È un’antica, insoluta e irrisolvibile questione quella che ruota attorno all’opportunità di pubblicare o no foto orribili come quella del cadavere di Chris Stevens e su cui Alessia ha già fornito sufficienti spunti di riflessione.
Io ammetto che quella foto me la sono guardata e riguardata più volte nel corso della giornata di ieri. Oggi ho fatto lo stesso. Provando umana pietà, sgomento e rabbia. Ma soprattutto facendo tornare a galla i ricordi di tutte le boiate che sono state scritte negli ultimi due anni sulla cosiddetta primavera araba.
Sulle proteste arancioni osservatori ed analisti hanno riempito pagine e pagine di giornali, invaso tg e trasmissioni di approfondimento con le loro dotte e visionarie letture. Vomitandoci addosso, con sicumera, le loro verità sul senso, le ragioni, le conseguenze dei moti di ribellione che hanno riguardato, a partire dalla fine del 2010, alcuni paesi del panorama arabo.
Magnificando sul certo ed ineluttabile processo di democratizzazione che ne sarebbe conseguito. Spingendoci a pensare che, una volta tolto il tappo, si sarebbe finalmente fatto largo quel moderatismo islamico, tanto necessario a proiettare il mondo arabo nella moderna civiltà. Un moderatismo, così tanto evocato a sproposito e la cui inconsistenza, finalmente, è stata messa a nudo. Non solo dall’uccisione di Stevens, dalle aggressioni alle ambasciate occidentali, dalle manifestazioni di piazza a difesa della dignità di Maometto inperniate su slogan imbecilli. Ma soprattutto dall’incompiutezza della primavera araba.
Non c’è certo di che rallegrarsene. Franate le analisi dei cantori del moderatismo in salsa islamica, di cui si sono perse le tracce, ci ritroviamo alle prese con un panorama (dis)informativo che non offre letture autorevoli sui tanti motivi per i quali vale la pena essere invece preoccupati.
Basta guardare ai pochi passi avanti compiuti sulla via del pseudo-moderatismo islamico da parte di alcuni paesi interessati dalle rivoluzioni arancioni. Nello Yemen non è cambiato assolutamente nulla dall’uscita di scena di Ali Abdullah Saleh. Qualcosa in più di uno spettro dell’islam radicale aleggia sulla testa del nuovo presidente Abd Rabbo Mansour al-Hadi. Ampie zone del sud sono infatti ancora sotto il controllo di Ansar al-Sharia, l’ala locale di al-Qaeda nella penisola araba. E deve far riflettere la barbara uccisione di un giovane insegnante americano, accusato di “diffondere il cristianesimo”.
Anche la transizione marocchina non è priva di complicazioni, nonché di vere e proprie marce indietro sulla via dell’esercizio di libertà che in passato erano tollerate. Cosicchè si è assistito, negli ultimi mesi, a rigurgiti di una ortodossia islamica celata nel moderatismo, ascrivibile a vero e proprio integralismo. Le donne marocchine erano, per le loro colleghe di altri paesi islamici, un esempio di apertura verso l’occidente. Ora tra di esse è in rapida diffusione l’uso del velo e del foulard. E che dire della proposta ultraconservatrice tesa a proibire ogni tipo di promozione commerciale sull’alcol?
In Egitto abbiamo assistito ai massacri ai danni della comunità cristiana dei copti e non si stemperano i focolai di terrorismo jihadista, in particolare nella penisola del Sinai. Che laicismo istituzionale e moderatismo religioso qui difficilmente si radicheranno, viene confermato da un recente sondaggio, secondo cui il 60 per cento degli egiziani pensa che la legge debba coincidere integralmente con la sharia, l’84 per cento esige la pena di morte per chi ripudia l’Islam, il 77 per cento ritiene indispensabile che ai ladri sia tagliata la mano e l’82 per cento ritiene assolutamente urgente che le donne adultere siano lapidate.
In Tunisia, archiviato venti mesi fa il regime totalitario di Zine el-Abidine Ben Ali, dopo tre esecutivi di transizione e la consegna delle redini del paese a el-Nahda (La rinascita), partito islamista moderato, il paese più laicizzato del mondo arabo, sta facendo i conti con il peso crescente dell’islam salafita. Col concreto rischio che la rivoluzione dei gelsomini per lavoro, giustizia, democrazia sia sequestrata dalla lotta terroristica dei salafiti per costringere le donne a portare il velo, comprimere le libertà sessuali, ma soprattutto per inserire la sharia come base della costituzione e della legislazione.
La domanda da porsi è: può esserci una coniugazione tra democrazia e islam? Più precisamente, si può pensare di dare vita ad un impianto democratico, che possa prescindere da una radice assolutamente laica e che riesca anche ad includere elementi confessionali non radicali? Io credo di no.
Come non ho mai creduto agli azzardatissimi parallelismi tra quello che avrebbe dovuto significare la primavera araba per il mondo islamico e ciò che ha rappresentato il crollo del Muro di Berlino per l’Europa. Le premesse erano simili in termini di sofferenza umana, violazione di diritti umani, povertà estrema, assenza di libertà individuali. In entrambi i casi c’era da smaltire una sbornia ideologica e culturale. Ma la transizione democratica, in parte riuscita, dei paesi dell’ex blocco sovietico non pagava un rapporto perverso con la religione. Anzi, quest’ultima, in tanti casi, è stata acceleratrice dei moti rivoluzionari laici. Ed in ogni caso, non avrebbe mai potuto costituire, come invece è l’islam, un freno al recupero di un drammatico gap di civiltà.