Arriverà prima o poi il momento, in ogni gravidanza, in cui vi chiederete se sia giusto dare figli a questo Paese. A me, in verità, capita più o meno spesso. A volte seguendo l’attualità, altre il percorso altalenante dei miei pensieri. Mi guardo intorno, magari reduce dalla lettura di un giornale oppure dopo una riflessione tutta mia, e mi chiedo: ma è giusto dare un figlio a un Paese che non manda in pensione i miei genitori, che non sa dare un lavoro dignitosamente retribuito a mia sorella e tanti della sua e mia generazione, che non sa ripulirsi da affarismo e corruzione? Siamo pure retorici: è giusto dare all’Italia, che ha già tradito il mio futuro di trentenne, un altro cittadino? Per ipotecare anche il suo, di domani?
Una mia amica, qualche tempo fa, mi chiese se avrei battezzato le bebè dopo la nascita. Certe volte mi viene da pensare che, con le dovute differenze, è un po’ una questione uguale e contraria: posso scegliere se farlo diventare cattolico-cristiano, mentre non posso scegliere se farlo diventare italiano. Lo sarà, punto.
Un altro amico, oltre che collega, proprio all’inizio della gravidanza mi disse invece che fare un figlio, oggi come oggi, è una rivoluzione. È un modo per urlare al mondo “non mi avrete”. Per dire: “tu ipotechi il mio futuro, ma io mi garantisco molto di più: l’immortalità”.
Spesso mi piace pensarla così. Sento con orgoglio la responsabilità e l’energia di questa scelta. Ma oggi, davanti alle scene da guerra civile della protesta degli operai Alcoa – appena ieri erano i minatori del Sulcis, chissà a chi toccherà domani tra esodati, licenziati, precari in equilibrio sulla soglia di povertà – è stata una giornata di riflessione. Accompagnata dalla retorica domanda: è giusto, oggi, fare un figlio in Italia?