Tancredi, questa volta tu non c’eri, per questo te lo racconto:
sotto un albero, sulle sponde del Ticino, un uomo e una donna si sono sposati. Il verde il loro colore: le scarpe di lui, il vestito di lei.
Un amico con la fascia tricolore legge gli articoli del nostro codice civile, poi si apre il sipario del rito buddista. Alla destra dello sposo tre donne indossano una camicia bianca e un fiore in testa. Alla sinistra della sposa, altrettanti uomini portano un nastro rosso intorno al collo. Alle loro spalle, una raccolta platea di amici e parenti, alcuni buddisti, altri (la maggior parte), no, ma comunque curiosi.
Seduto di fronte al Go-honzon, oggetto di culto del Buddhismo Nichiren, un uomo giapponese dà il via alle preghiere. Preghiere fatte di voci che si sovrappongono, si accavvallano, si scavalcano, si inseguono, si cercano. Lui e lei, gli sposi, con le mani giunte, ripetono quelle formule senza incepparsi mai, sfregandosi di tanto in tanto le mani, quasi a voler riacchiappare quell’energia che non deve sfuggire.
Dura tanto, per noi che non capiamo; dura il giusto, per loro che credono.
Ogni fase è scandita da vari rintocchi sonori, poi la bellissima cerimonia del saké: lo sposo e la sposa bevono tre sorsi da tre tazze differenti, simbolo delle tre esistenze, passato, presente e futuro.
Poi gli applausi, il riso gettato in aria, le foto, le lacrime, la gioia, i canti, il vino, le risate.
A fine giornata, nel buio della notte, la luce di una lanterna cinese porta in cielo un desiderio degli sposi.