I dati pubblicati da Chrystia Freeland, direttore di Thomson Reuters Digital, nel suo saggio «Plutocrats» uscito di recente, sono netti. Oggi ne scrive anche Zampaglione su Repubblica (il libro l’ho prenotato ma non mi è ancora arrivato) evidenziandone due: il primo è che dal 20 gennaio 2009, da quando Obama ha preso il posto di Bush, il Dow è passato da 7.949 punti ai 13.557 della settimana scorsa mentre l’S&P è cresciuto da 805 a 1.460 punti ma questo non è bastato al presidente democratico ad avere l’appoggio di Wall Street (la quale vuole che si aderisca anche alla sua ideologia, cosa che però Obama non fa). Una performance merito dei 700 miliardi del Tarp, il piano di salvataggio delle banche, e della liquidità pompata dalla Fed.
Il secondo dato citato dalla Freeland è che due economisti (Emmanuel Saez e Thomas Piketty) hanno fatto una ricerca da cui risulta che il 93% dei guadagani prodotti da questi interventi pubblici sono finiti nelle tasche dell’1% dei contribuenti (e il 37% nelle tasche dello 0,01%).
A parte il problema politico per Obama resta che, volenti o nolenti, la finanza è la migliore forma di allocazione delle risorse che abbiamo trovato finora. A parte il problema economico che evidenzia un mercato che si percepisce ancora come privato ma che in realtà è retto da capitali pubblici, resta che quello sociale è il dramma più urgente implicito in questi numeri.
Scrive l’Economist di due settimane fa: «Alcuni di quelli che stanno in cima alla scala sociale resteranno scettici che l’ineguaglianza sia un problema in sé. Ma anche loro hanno un interesse a mitigarla, perché se continua a crescere, la richiesta di un cambiamento si rafforzerà e potrebbe portare a un risultato politico che non serve gli interessi di nessuno». Chiaro?