Il tornioL’altra metà del cielo: donne e potere in Cina (note a margine del XVIII Congresso nazionale del Partito comunista cinese)

Sarebbe una vera e propria rivoluzione di genere. Se al termine del XVIII Congresso nazionale del Partito comunista cinese Liu Yandong fosse eletta nel comitato permanente del Politburo, il ristret...

Sarebbe una vera e propria rivoluzione di genere. Se al termine del XVIII Congresso nazionale del Partito comunista cinese Liu Yandong fosse eletta nel comitato permanente del Politburo, il ristretto organo politico di sette membri che di fatto governa il paese, per la prima volta nella storia cinese una donna raggiungerebbe una posizione di potere a così alti livelli. Salita alla ribalta della scena politica nel 2007, con il suo ingresso nell’attuale Ufficio politico del Pc cinese, Liu Yandong è la quinta donna dalla nascita della Repubblica popolare nel 1949 a essere ammessa nel “club per soli uomini” del Politburo. Nata a Nantong 67 anni fa, ha per anni coltivato la sua immagine di leader efficiente, modesto e prudente. Ora, secondo molti analisti e osservatori, potrebbe essere giunto per lei il momento del grande passo, in una Cina potenza modiale autoritaria in piena mutazione.

Come programmato, il 14 novembre il Partito comunista cinese renderà noto l’assetto dei nuovi vertici del Pcc e delle istituzioni della Repubblica popolare: il presidente Hu Jintao cederà il passo al suo vice Xi Jinping, prima alla guida del partito e successivamente al vertice delle istituzioni. Xi Jinping diventerà segretario generale del Partito e, dal prossimo anno, presidente della Repubblica popolare. L’attuale premier Wen Jabao lascerà il posto a Li Keqiang, attuale vice premier. In questo quadro, la nomina al femminile di Liu Yandong, anch’essa attesa al termine del Congresso, segnerebbe una data storica per un paese come la Cina contraddistinto da una profonda e radicata asimmetria di genere.

“Le donne portano sulle loro spalle la metà del cielo e devono conquistarsela”, aveva detto Mao Tse-tung, il Grande Timoniere, il Padre della Patria, a proposito del ruolo delle donne nella Rivoluzione Cinese. Ma la parità di genere nella politica cinese contemporanea è tuttavia rimasta sulla carta. Al congresso del Partito comunista cinese attualmente riunito a Pechino le donne rappresentano unicamente il 23% dei delegati. E la componente femminile dell’Assemblea nazionale del popolo, il “parlamento” cinese, scende al 21 per cento.

Quote estremamente deludenti se si pensa che secondo i dati dell’ultimo censimento nazionale del 2010 in Cina la popolazione femminile ha superato i 630 milioni di individui e rappresenta il 48% circa della popolazione totale. Sulla carta, il governo cinese mostra da decenni una particolare attenzione allo sviluppo e al progresso delle donne, considerando la parità fra i sessi una fondamentale politica statale per la promozione dello sviluppo sociale del paese. Ma la realtà è molto diversa. Secondo un sondaggio del 2010, il 62 per cento degli uomini e il 55 per cento delle donne cinesi sostiene che il posto della donna sia la casa: un aumento del 7 per cento tra gli uomini e del 4 per cento tra le donne rispetto al decennio precedente.

Sin dalla metà degli anni Novanta, il governo cinese aveva cercato di introdurre garanzie politiche e legali al progresso e sviluppo femminili elaborando “Il programma quinquennale di sviluppo delle donne” e “Il programma decennale di sviluppo delle donne”, documenti politici che stentano a divenire realtà nella Cina contemporanea, nonostante l’articolo 48 della Costituzione cinese introduca una parità di genere a tutti i livelli, per far sì che le donne cinesi godano degli stessi diritti degli uomini in campo politico, economico, culturale, sociale e della famiglia. Di fatto, le politiche riguardanti la donna in sé non sono mai cambiate. Al di là della retorica dell’uguaglianza, nell’Impero Celeste delle grandi tradizioni filosofiche, ora divenuto l’economia di mercato più imponente al mondo, le donne rappresentano ancora l’anello debole della catena, in una cultura ancora tradizionalmente maschilista.

Nel rapporto sulla parità di genere stilato nel 2012 dal Social Institutions and Gender Index, la Cina figura solo al 42° posto della classifica mondiale, migliorando comunque la sua posizione rispetto al 2009, quando occupava l’83° posto su 86 paesi esaminati. Questo istituto che stabilisce regolarmente i criteri della discriminazione internazionale nei confronti delle donne segnala ancora, per il caso cinese, numerosi casi di violenza domestica e di matrimoni in età precoce, sottolineando anche che le politiche demografiche imposte da Pechino penalizzano maggiormente le donne e le bambine che non gli uomini. In particolare, la politica del figlio unico, introdotta nel 1979 da Deng Xiaoping a livello nazionale, continua a provocare numerosissimi casi di aborti spontanei o forzati, di infanticidi, di mancata registrazione alla nascita, di misteriose sparizioni delle bambine.

In un saggio intitolato “La condition féminine traditionnelle en Chine” pubblicato nel 2003 sulla rivista Etudes chinoises, Nicolas Zufferey dell’Université de Genève traccia un quadro complessivo degli studi sulla lunga marcia delle donne cinesi per la conquista dei loro diritti, dai primi passi dell’emancipazione femminile in Cina fino all’era del postmaoismo e dell’ingresso delle donne nell’economia socialista di mercato. Ne emerge il dato strutturale di una condizione femminile ancora costretta da una forte e radicata discriminazione di genere, che fa della donna cinese la “victime passive d’une société patriarcale”, per usare le parole di Zufferey.

Réformateurs, révolutionnaires et féministes, de manière quasiment unanime, avaient dépeint la femme traditionnelle comme la victime passive d’une société patriarcale façonnée par les valeurs du néoconfucianisme. Furent notamment dénoncés l’infanticide des filles, le bandage des pieds, l’inégalité dans l’éducation, l’inégalité dans le mariage, la ségrégation des sexes et le confinement de la femme à l’intérieur de la maison, le statut des veuves, interdites de remariage et souvent poussées au suicide, en un mot, la soumission, à tous les âges de la vie, de la femme aux hommes.

Fra due giorni sapremo se anche alla candidata femminile Liu Yandong al comitato permanente del Politburo sarà applicata la frase cara al famoso sinologo francese Marcel Granet («Dès qu’elle sait parler, on l’oriente la femme chinoise vers une destinée de soumission en lui apprenant à dire «oui» sur le ton humble qui convient aux femmes»). Certo, una sua eventuale bocciatura evidenzierebbe ancora una volta il limite della politica delle pari opportunità in Cina. A tutt’oggi nelle trentatré regioni cinesi sono donne solo il segretario di Partito del Fujian e il governatore dell’Anhui. Le altre 64 cariche sono tutte ricoperte da uomini. Anche il tentativo dell’unica rappresentante dell’altra metà del cielo tra i 25 membri del Politburo, ben visto nell’ambito dei favoriti del vecchio e ancora potente Jiang Zemin, potrebbe essere destinato a infrangersi contro la tradizione millenaria che segna la condizione femminile in Cina. Sebbene grazie a internet e ai moderni mezzi di comunicazione di massa una parte consistente della società cinese abbia ormai raggiunto una certa coscienza sociale, la lunga marcia delle donne cinesi nella politica e nel potere è appena cominciata.

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