Dal primo presidente nero di origini africane della storia americana ci si aspettava molto di più in materia di cooperazione internazionale e aiuti allo sviluppo. Il bilancio della prima presidenza Obama non brilla in questo campo, così dicono gli osservatori statunitensi. Metà mandato è servito solo per cambiare i vertici di USAid, l’agenzia americana che si occupa degli aiuti e della cooperazione internazionale, nella quale il processo di cambiamento è ancora in atto. Negli ultimi due anni molto è stato fatto in termini di valutazione e ri-orientamento della strategia americana dell’aiuto ma la scarsa collaborazione tra il presidente e il Congresso non ha permesso che la teoria diventasse pratica, ovvero nuova legislazione.
I temi della cooperazione, dell’aiuto internazionale e delle sfide dello sviluppo globale non sono state certo cavalli di battaglia nella campagna elettorale di Obama e Romney, molto più orientati a tranquillizzare gli americani sulla crisi economica e le questioni interne.Quel poco che è stato detto è contenuto nei discorsi dei due candidati alla Clinton Global Initiative tenutasi a New York alla fine di settembre. Due visioni non molto distanti quelle repubblicane e democratiche sul ruolo degli USA nel mondo, almeno in questa fase della campagna elettorale.
L’obiettivo di Obama è ancora quello di cinque anni fa, slegare progressivamente le politiche di cooperazione allo sviluppo da quelle della diplomazia e degli impegni militari individuando priorità geografiche ben definite. A questo si aggiunge il nuovo monito del presidente sulle nuove schiavitù e lo sfruttamento del lavoro a basso costo nei paesi del sud.
Romney promette una politica dell’aiuto moderna ma senza indicare innovazioni sostanziali: rispondere ai bisogni umanitari, intensificare la lotta all’Aids e perseguire gli interessi americani anche in campo economico, strategico e militare. Quest’ultimo forse l’unico vero punto distintivo tra i due concorrenti. Identico invece l’orientamento sul tema dello sviluppo globale che deve vedere gli States ancora protagonisti del commercio e degli investimenti del settore privato in giro per il mondo.
E’ vero che tradizionalmente negli Stati Uniti la differenza su questi temi l’ha fatta il Congresso più che il presidente. Quel che è certo è che fino ad oggi gli aiuti allo sviluppo sono stati più consistenti e incisivi quando il Congresso ha avuto lo stesso orientamento politico del presidente. E’ qui infatti che si giocano le battaglie e si effettuano le scelte strategiche ed è qui che emergono le differenze tra il popolo democratico e quello repubblicano. Secondo gli osservatori americani del settore è sicuro che con una presidenza Romney e un Congresso d’orientamento repubblicano si eliminerebbero, per esempio, una serie di programmi in corso sulla pianificazione familiare, sui diritti degli omosessuali e sul cambiamento climatico nei Paesi del Sud del mondo.
Insomma non sembra che ci si possa aspettare molto dall’esito delle prossime elezioni in termini di contributo americano alla nuova agenda per lo sviluppo globale oltre il 2015.
Ciò non toglie che imbeccare la politica su questi temi possa essere del tutto salutare anche nel contesto italiano, in eterna campagna elettorale. Chiedere ai politici e ai candidati premier che ci rappresenteranno quale sia la loro visione sui temi cruciali dello sviluppo è comunque fondamentale anche in tempi, come quelli attuali, in cui si tende a guardarsi la coda.
Cosa possiamo aspettarci dai nostri futuri leader? Di Mario Monti sappiamo già dopo il laconico discorso sull’impegno italiano pronunciato al Forum della Cooperazione di Milano. Ma Bersani, Renzi, Grillo, Alfano, Santanchè hanno qualcosa in più da dire in materia? Il timore è che, come nella campagna elettorale americana, le posizioni siano piuttosto generiche e del tutto simili.