Si è sciolto come neve al sole il presunto scandalo sulle ONG e la cooperazione internazionale che diversi giornali avevano annunciato alla vigilia dell’uscita de “L’industria della carità”.
Purtroppo è bastato il tempo di leggere la pubblicazione di Valentina Furlanetto, edita da Chiare Lettere, per verificare l’inconsistenza della denuncia che la giornalista vorrebbe estendere ad un intero settore partendo dal racconto di pochi casi già noti, denunciati e discussi in passato.
Ma di che settore stiamo parlando? In copertina si parla di “volto nascosto della beneficenza” e dentro alla beneficenza l’autrice mette di tutto , realtà assolutamente non assimilabili con mission estremamente diverse: le ONG, le Onlus, le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali, le organizzazioni impegnate negli aiuti umanitari, le organizzazioni che si occupano di adozioni internazionali, la Croce Rossa, le associazioni ambientaliste, le Fondazioni e le associazioni di volontariato. In fondo una vale l’altra, sempre di beneficenza stiamo parlano, no? Forse si, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, di una persona che come tante ha sostenuto progetti benefici ma del terzo settore non ha molta conoscenza.
Di tutto questo universo la Furlanetto vuole dimostrarci l’ovvio, cioè che nel mondo di chi dovrebbe fare del bene (la carità appunto) ci sarebbero gli indiani e i cowboy, chi fa seriamente e chi fa il furbo. Vuole mettere in allerta l’opinione pubblica sulla trasparenza del no profit invitandoci a verificare la serietà e i conti delle organizzazioni prima di effettuare una donazione, è da li che si capisce chi sono gli indiani e chi i cowboy (?!).
Lette con gli occhi di un operatore del settore invece queste differenze sono importanti, direi sostanziali e sono sicuro che Valentina Furlanetto ne sia a conoscenza. Leggere il libro con questi occhi è stata una delusione, per chi sperava che questo volume potesse avviare un vero dibattito e suscitare dinamiche di autocritica all’interno delle diverse e variopinte realtà del terzo settore, che a parere di chi scrive dovrebbe riflettere e affrontare seriamente diverse criticità, molte delle quali sollevate anche dalla Furlanetto.
Ma il mio intento non è quello di fare una recensione del libro, lascio ai lettori la libertà di valutarne la validità e l’interesse a seconda degli occhi con i quali lo leggeranno.
Nel caso in cui però la giornalista si volesse cimentare in futuro nella scrittura di un “l’industria della carità 2”, mi permetto di suggerire una serie di spunti che potrà sviluppare attraverso una vera inchiesta giornalistica:
Marketing e comunicazione
Da una giornalista che lavora per una grossa testata nazionale mi sarei aspettato che ci spiegasse come mai sono sempre le solite ONG ad apparire quotidianamente sui media, stranamente proprio quelle che la Furlanetto etichetta come “multinazionali della solidarietà”. Sarà proprio perché spendono diverse centinaia di migliaia di euro all’anno in inserzioni pubblicitarie su giornali e televisioni?
Co-marketing e paternariati profit-nonprofit
Quali e quante ONG non sono coerenti con le propria visione e missione nel momento in cui stringono accordi di marketing, co-branding e si fanno finanziare da aziende e multinazionali potenzialmente responsabili di alcuni dei guai che loro stesse combattono? Diverse ONG italiane sono finanziate da multinazionali come Unilever, GDF Suez, Eni, Chiquita, solo per citarne alcune.
Legittimità e rappresentatività
Molte delle ONG più grandi d’Italia sono associazioni formate da pochissimi soci che si alternano al governo delle stesse da decenni. C’è un problema di partecipazione e legittimità nel mondo non governativo italiano. Le ONG chi rappresentano? In nome di chi sono titolate a parlare e agire?
In molti casi sembrerebbe che agiscano in nome di alcuni poteri forti che le spalleggiano. Vogliamo indagare su partiti, chiese, sindacati, curie e baronati vari che siedono nei Consigli d’Amministrazione? Vi dice qualcosa Don Verzè e ONG Aispo? Si potrebbe partire da qui.
Gli stipendi e i contratti degli operatori del settore
L’ha detto lei nel libro, gli operatori del non-profit italiano sono pagati circa la metà di quelli del profit. Ma al di la dei livelli salariali, perché non esiste un contratto di lavoro nazionale del settore? Com’è possibile che gran parte del settore sia costretto a lavorare con il Contratto nazionale del commercio? Un vero controsenso, il no-profit che lavora con il contratto del commercio.
Pizzo sugli stipendi dei cooperanti
Sarebbe utile che un giornalista si faccia raccontare qualcosa da quelle centinaia di espatriati a cui la propria ONG chiede una restituzione di una parte dello stipendio sotto forma di donazione…il tutto avviene su progetti co-finanziati da enti pubblici.
E le risorse pubbliche per la solidarietà?
Oltre a preoccuparsi di come vengono spesi i soldi generosamente donati dagli italiani, sarebbe utile andare a scoprire come vengono spesi quelli che gli italiani pagano non volontariamente attraverso le proprie tasse. E come vengono distribuiti i co-finanziamenti pubblici? Se le ONG sono poco trasparenti… sul versante pubblico vi si aprirà un mondo…di fumo e nebbia fitta! (ripartizione dell’8×1000 a diretta gestione statale, fondi del Ministero Affari Esteri e DGCS, amministrazioni ed enti locali). E qui si parla di tasse e non di donazioni liberali e volontarie. Altro che bilanci pubblicati sul sito!
Tutto ciò è davvero difficile trovarlo su internet, sia navigando nei siti italiani che in quelli inglesi o americani. Ma posso assicurare che ci sarebbe davvero tanto da dire.