Chiedo scusa se mi parlo addosso ma mi viene spontaneo. Quando – pur «tenendo famiglia» – nell’estate 2010 mi sono dimesso con altri colleghi seguendo il mio direttore per questioni che, a una primissima analisi dall’esterno, mi sembrano avere dei parallelismi con quanto sta succedendo a Linkiesta, lasciavo un contratto a tempo indeterminato. Non c’era nulla all’orizzonte – checché ne dicessero le malelingue («C’è già qualcosa pronto, eh?!? Portatemi con voi, anche se adesso non ho la forza economica di dimettermi, sai com’è, tengo famiglia»).
Avevo una figlia, mi ripetevo interrogandomi sull’apparente avventatezza della scelta – domande che poi, puntualmente, più o meno mi sono state poste da molti –: ero grande e vaccinato e avevo scelto per il mio piccolo nucleo familiare appena formatosi una via rischiosa, agendo di stomaco, cioè di cervello, cioè di cuore. Eppure.
Eppure lo spettro del futuro mi sembrava meno tetro perché me ne feci una ragione con questa auto-rassicurazione: voglio illudermi che la cosa faccia da piccolo esempio anche per mia figlia, quando sarà grande. Magari le dirò – con mia moglie (giornalista anche lei) quasi non serve – che suo papà non è stato né un coglione né un eroe. Semplicemente ha fatto quello che sentiva di fare, mettendo da parte il pallottoliere dei pro e dei contro e la bilancia degli opportunismi. Non sempre nella vita bisogna anteporre le convenienze del momento. [fine della prima parte della filippica, per la quale mi scuso pur con gli occhi lucidi]
So che molti tra i firmatari della bella nota della redazione lo avranno pensato, e so cosa si prova («Restare o andare? E quanti siamo? Armiamoci e partite? E chi resta che fa? Come mi dovrò comportare con loro? Chi mi offrirà un altro contratto?»). Quell’evento fu per me uno spartiacque umano oltre che professionale, scremai amicizie che credevo consolidate e invece erano solo di comodo.
Tutta questa prosopopea per dire che sono, anche stavolta, dalla parte di chi se ne va («ecchissenefrega?», sì, lo so). Ringrazio chi ha voluto coinvolgermi, facendomi sentire parte del tutto e – non da ultimo – permettendomi di sperimentare una forma espressiva che non conoscevo – il tanto vituperato «it’s all about me journalism», giustamente bandito in un mestiere dove devi dare del “lei” anche se intervisti tua madre.
PS – In tre anni ho cambiato lavoro (ma non direttore e colleghi, che per fortuna ho ritrovato in un’altra redazione) e avuto un’altra bimba. Oggi, però, nel mese che celebra le dimissioni (dal Papa a Giannino passando per Tondelli…) anche il mio alter ego “papesco” si accoda – per quello che può servire – alla scelta dei vertici, dei giornalisti e di qualche blogger de Linkiesta. È stato bello, magari lo risarà altrove. Stay tuned (cit.).