La bufera giudiziaria che ha colpito l’Eni e il suo amministratore delegato Paolo Scaroni per l’ipotesi di una maxi tangente pagata al governo algerino costerà cara. Non solo all’Eni ma a tutto il Paese. Come già accaduto con Finmeccanica e Pierfrancesco Guarguaglini, prosciolto recentemente dalle accuse, oggi tocca all’Eni affrontare un periodo – non si sa quanto lungo – di incertezza manageriale ed operativa. E’ un altro e pessimo capitolo di una questione molto delicata che investe temi cruciali: il funzionamento delle grandi aziende, la trasparenza della loro attività, l’etica dei loro manager, la competizione internazionale, la corruzione nei paesi in via di sviluppo e la distribuzione della ricchezza che incassano per le loro risorse, il peso economico ed anche politico delle nostre aziende (e dell’Italia) nel mondo. Non conosco le carte dell’inchiesta e quindi nulla dico delle eventuali responsabilità di Scaroni. Posso però affermare che chiunque abbia fatto affari in determinati (e parecchi) paesi del mondo, tra Nord Africa, Medio Oriente, Estremo Oriente o Sud America, spesso e volentieri ha dovuto ungere i meccanismi, ossia pagare tangenti. Si tratta di un fattore spesso ineludibile di alcuni mercati, e non della cattiva inclinazione degli italiani. Diverso è invece il caso in cui le provviste di capitali all’estero e parte delle tangenti tornano in Italia per finire nelle tasche degli stessi manager o dei loro politici di riferimento. In questo caso stiamo parlando di manager infedeli che danneggiano la loro azienda e i loro azionisti. Nel primo caso invece parliamo di manager che competono con gli stessi mezzi (buoni o cattivi che siano) dei loro avversari, ossia le multinazionali di altri paesi. Non mi sembra intelligente farli fuori con il cosiddetto fuoco amico delle irreprensibili procure italiane.
10 Febbraio 2013