John Renbourn è uno che a sessantanove anni suonati carica chitarra e bagagli sul suo van verde e parte dalla Scozia per raggiungere Torino. Da solo. Prendendosi il tempo necessario, certo, ma parliamo della prima tappa di un viaggio che ha come meta ultima l’isola di Creta. John Renbourn è uno che fa concerti ormai raramente ma ha fatto volentieri un’eccezione per il Folk Club, locale in cui si è esibito ben sette volte a partire dal 1990 e che festeggia quest’anno il proprio venticinquennale. John Renbourn è un gentleman gioviale che dispensa aneddoti divertenti ma è anche una delle colonne portanti di quel folk revival che, negli anni Sessanta inglesi, diede vita ad un affascinante cortocircuito spazio-temporale: sull’onda di Dylan, The Band e un manipolo di pochi altri pionieri, una generazione poco più che ventenne decise ad un certo punto che il recupero delle radici anglo-scoto-irlandesi era probabilmente l’atto più rivoluzionario che si potesse compiere. Se di quella rivoluzione gentile e talvolta sottovalutata godiamo tuttora i frutti (basti contare le nuove leve del folk che vi attingono), coloro i quali l’hanno fatta crescere e poi consolidata stanno ormai abbandonando la scena, portando con sé l’inevitabile carico di caduti e ritiri.
Renbourn, tuttavia, è tutto fuorché un reduce dei bei tempi andati, e il suo concerto di venerdì 1 febbraio, quasi due ore complessive, è la lectio magistralis di un maestro rigoroso ma mai altezzoso, che mostra l’amore sconfinato, quello dell’artigiano per l’arte antichissima appresa in gioventù, nei confronti di un repertorio che rimpalla in continuazione da una sponda all’altra dell’Atlantico, dal blues del Mississippi alle Highlands scozzesi. Il chitarrista è stato talvolta relegato nella nicchia dei virtuosi e dei musicisti per musicisti, soprattutto a partire dalla collaborazione con l’americano Stefan Grossman a fine anni Settanta, ma il concerto torinese ha davvero un altro sapore, quello che ci immaginiamo potesse esserci nella Soho dei primi anni Sessanta, nel club Les Cousins di Greek Street dove la rivoluzione gentile era nata.
Le mani si muovono da sole e danzano tracciando ricami di fingerpicking, ma quello che colpisce di più è la leggerezza del tocco. Le poche volte in cui la mente sembra correre più veloce delle mani la fluidità complessiva dell’esecuzione non ne risente, ed è un piacere intenso assistere al viaggio a tappe suggerito dalle canzoni: il Sud americano anteguerra (“White House Blues”), il transatlantico su cui l’americano Jackson C. Frank, diretto in Inghilterra, scrisse “Blues Run The Game”, la Scozia evocata da un paio di canzoni da ballo eseguite dopo un agile cambio di accordatura. La voce, seppur intaccata dal tempo, resta espressiva, e Renbourn tocca anche il proprio repertorio: una “Seven Up” tratta da Sir John Alot del 1968 e una “Lord Franklin” tratta da uno dei più celebri dischi dei suoi Pentangle, Cruel Sister. Niente nostalgia però, solo il bisogno di comunicare l’entità del tesoro scoperto, studiato e divulgato in tutti questi decenni, un repertorio che è stato felicemente contaminato, ravvivato, mai rinchiuso in teche polverose.