Il tifo del Celtic è cosa nota. Oltre che da perle sportive (su tutte la Coppa dei Campioni del ‘67 vinta a Lisbona contro l’Inter), i 125 anni di storia del club cattolico di Glasgow sono costellati dalle ineguagliabili imprese dei suoi fan. È difficile dimenticare gli 80mila scozzesi che raggiunsero Siviglia nel 2003 per la finale di Europa League poi persa contro il Porto oppure, per andare molto più indietro nel tempo, gli oltre 145mila spettatori che affollarono le gradinate dell’Hampden Park di Glasgow per la finale di Scottish Cup del 1937 (record di sempre per una partita tra club in Europa).
Ma il calore del tifo, da solo, non sarebbe bastato a portare il Celtic a battere il club più forte del mondo (il 7 novembre scorso, Celtic-Barcellona 2-1) e a entrare ufficialmente nell’elite del calcio europeo.
Qual è il segreto allora? Semplicemente, a fronte di mezzi scarsi il Celtic ha scelto di rinunciare alle spese folli, di non fare mai il passo più lungo della gamba.
Per avere un’idea della “povertà” del contesto scozzese basta ricordare che tutta assieme la Scottish Premier League, non raggiunge l’1 per cento dei diritti televisivi della vicina Premier League inglese. Oppure il fatto che anche una squadra inglese di fascia bassa, come Il Queens Park Rangers ultimo in classifica, spende per il monte ingaggi e i trasferimenti più del Celtic. O ancora che la società non entra dal 2007 nella classifica dei 20 club più ricchi d’Europa (per ricavi) stilata dalla Deloitte, in cui pure attualmente figurano squadre che nemmeno hanno nemmeno preso parte all’ultima Champions, come Newcastle e Amburgo o le nostre Inter, Napoli e Roma.
Non avendo a disposizione gli stessi mezzi di altri club dell’isola, a Parkhead si è optato per una gestione finanziaria paziente e lungimirante, a cui è stata affiancata la famosa “programmazione”, di cui tanti presidenti parlano ma che solo pochi riescono a mettere in atto.
Mentre la metà protestante di Glasgow costruiva le premesse per il proprio fallimento (oggi gli odiati Rangers sono ignobilmente relegati in terza serie), il Celtic teneva sotto controllo il monte ingaggi (Tony Watt, il ventenne che ha steso Messi e compagni, è stato prelevato dal misconosciuto Airdrie e guadagna circa 80mila sterline a stagione, vale a dire meno di 100mila euro) e comprava in quelli che il suo attuale presidente, Peter Lawwel, chiama “mercati sottovalutati”, cioè Asia, Africa e America Latina, senza dimenticare le serie minori del Regno Unito. Ciò ha consentito di tenere in ordine le finanze del club e di mettere da parte consistenti plusvalenze: è il caso del centrocampista Ki Sung-yueng, comprato in Corea per 2 milioni di sterline e rivenduto tre anni dopo agli inglesi dello Swansea City per 6.
Nel frattempo la società investiva nel settore giovanile e su una rete fitta di osservatori, oltre che sulle strutture sportive di proprietà. Lo stadio, il rinnovato “Celtic Park”, è stato oggetto di un apposito piano (“Club’s Five Year Stadium Refurbishment Plan”) volto a ottenere il riconoscimento a cinque stelle della Uefa, che consente anche di ospitare finali di Champions.
Quando si riferisce al “suo” Celtic, Lawwel parla di “un modello economico sostenibile e a lungo termine, che ci mette al sicuro dagli effetti di eventuali improvvisi sconvolgimenti finanziari e che ci consente di rimanere competitivi a livello europeo”.
Un modello, insomma, che potrebbe tornare utile a molti.