Con una procedura irrituale che di fatto certifica l’ingovernabilità, il presidente della Repubblica spiazza tutti, smentendo animi e indiscrezioni. Non ha intenzione di lasciare il Quirinale. E non ha neppure intenzione di mollare la presa sulle istituzioni prima dell’ultimo giorno del suo settennato. Dopo che il tentativo di Pier Luigi Bersani è naufragato definitivamente contro il muro di veti contrapposti, chiusure, mosse, contromosse e ipotesi subordinate più o meno irrealizzabili, la situazione è così slabbrata e rigida fra i partiti e a livello parlamentare che formare un governo appare sempre più un miracolo. E lui, in questo momento, miracoli non ne può fare.
Mentre tutti i principali quotidiani congetturavano ipotesi di scuola sulle sue dimissioni, Giorgio Napolitano ha preso in mano la situazione inventandosi un articolo della Costituzione che non esiste. Con la creazione di due gruppi ristretti che saranno chiamati ad avanzare delle proposte per la formazione del nuovo esecutivo, il Capo dello Stato propone un compromesso dilatorio nell’esigenza di fare maturare gradualmente, in una prospettiva meno convulsa, quel «forte spirito di coesione nazionale» costantemente invocato dal Colle come risorsa, ma al momento non disponibile.
L’obiettivo è la caduta del muro contro muro, l’abbattimento dalle barricate con cui le tre principali forze politiche stanno affondando il paese. Un’indicazione che ricorda da vicino il «modello olandese», uno schema fatto di condivisione di obiettivi minimi, di patti siglati su un programma gradito a tutte le compagini politiche, in grado così di portare avanti un percorso di riforme necessario. Un governo più che mai del Presidente e che risponderà direttamente al Quirinale. Una svolta per la Repubblica Italiana, quasi al limite della forzatura costituzionale.
La composizione di questo gabinetto di guerra del Presidente ha deluso le aspettative di chi, soprattutto tra i giovani, si aspettava una scossa generazionale e un riconoscimento di genere. Nessuna donna, tutti nomi maturi. Per il gruppo delle riforme, Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale di area piddina, Mario Mauro di Scelta Civica, Gaetano Quagliariello del PDL e Luciano Violante del PD. Per quello sui temi socio-economici, Enrico Giovannini, presidente dell’Istat, Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Authority della concorrenza (quota Pdl) Salvatore Rossi, membro del Direttorio di Bankitalia, Enzo Moavero Milanesi (quota Monti). Infine, i due presidenti delle Commissioni speciali di Camera e Senato, Giancarlo Giorgetti (Lega) e Filippo Bubbico (Pd).
Il piano, da seguire in ogni sua fase, sembra in primo luogo quello di impedire elezioni anticipate in tempi ravvicinati con l’attuale legge elettorale. Nella notte più lunga della politica italiana che dura dal 25 febbraio scorso ancora non sappiamo se riusciremo ad avere in tempi ragionevoli un governo, e con quali forze, e in nome di quali priorità, mentre l’economia e la società ristagnano e il pericolo di un nostro crollo di credibilità europea e internazionale si fa sempre più minaccioso.
A rendere ancora più inestricabile il groviglio è la sovrapposizione fra crisi di governo e successione al Quirinale, che agita le acque di una zoppicante legislatura che stenta a partire. La crisi più ingarbugliata dal dopoguerra a oggi sembra dunque aprire la strada a trasformazione dell’Italia in una sorta di repubblica presidenziale, con un «pool di saggi» che, negli intenti del Presidente della Repubblica, dovranno definire un programma di governo attorno al quale costruire un esecutivo che raccolga la fiducia del Parlamento. Un governo, sulla carta, c’è già, suggerisce Napolitano: è quello di Mario Monti, ormai un esecutivo-fantasma, un po’ morto ma non del tutto, che può durare almeno fino a maggio. Ma più probabilmente fino a luglio, o addirittura a ottobre, chissà.
Intanto dietro l’angolo ci sono le elezioni per il nuovo Capo dello Stato. Napolitano lo sa e sa anche che in questa fase può giocare solo di rimando, essendo in scadenza di mandato. Non può dispiegare pienamente la sua «moral suesion» sui partiti costringendoli a un governo del presidente, perché tra qualche settimana il presidente sarà un altro, non può utilizzare l’arma dello scioglimento anticipato perché in pieno semestre bianco. Il 15 aprile si comincia a scegliere il nuovo Capo dello Stato. Che dovrebbe insediarsi dal 15 maggio.
Il compromesso dilatorio proposto da Giorgio Napolitano si muove proprio in questo orizzonte, ormai marcato da una profonda e radicale crisi di sistema, in cui l’attuale legge elettorale non riesce più a dare una maggioranza al Parlamento e il Parlamento non riesce più a dare un governo al Paese. L’idea di avviare un lavoro programmatico, cioè di ripartire dalle cose da fare piuttosto che dalle formule, prende tempo e indica la direzione di un nuovo mandato che lo stesso Napolitano potrebbe affidare in eredità al successore.
Sembra un disastro, ma in realtà questo scenario va bene a tutti. Permette di riprender fiato al PD, impantanato nel tentativo Bersani, dove si è aperta ufficialmente una crisi i cui esiti saranno certamente drammatici. Va bene al PDL che si ritrova inaspettatamente al centro degli equilibri politici. Va bene al M5S, che continua a prosperare sul caos in vista della palingenesi totale e rilancia l’idea strampalata di un Parlamento che legifera anche senza un nuovo esecutivo. Nel quadro attuale è facile scorgere a chi convenga il perpetuarsi di una simile situazione che impedisce di dare un governo al paese. Non di certo all’Italia.
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