Se a questa frase ci aggiungo:
la tua libertà finisce dove inizia la mia
l’uso del congiuntivo non è facoltativo in questa casa
ho riassunto i tre principi base che hanno governato la mia infanzia e di conseguenza la mia vita.
Li ho sempre immaginati stampati all’ingresso di casa di mia madre, esattamente come Dante vede le parole stampate sulla porta dell’inferno.
Io come Dante, lasciavo ogni speranza quando entravo. La speranza di poter eludere questi tre semplici principi base che sembrano semplici, ma che in realtà celavano e celano un mondo fatto di sotto testo, di cose non dette ma ovvie, di domande non fatte di cui però sapevo già la risposta.
Dovrei ancora dir grazie oggi a mia madre per avermi costretto a un tale esercizio mentale, linguistico, e dialettico, perché se oggi ho una particolare ossessione per le sfumature, è merito suo.
La tua libertà finisce dove inizia a mia.
Ho sempre avuto la netta sensazione che lo spazio occupato dalla libertà di mia madre fosse esponenzialmente più ampio di quello che occupava la mia.
Come se la mia libertà fosse uguale alla sua sì, ma più piccola, quindi non proprio identica.
Il significato reale della frase è sempre stato molto sottile, e ancora adesso so per certo che molti miei coetanei avrebbero difficoltà a capirlo. La libertà di mia madre infatti le dava modo, liberamente, di decidere cosa fosse giusto o sbagliato per me, mentre al contrario, la mia libertà non aveva questa facoltà. La sua libertà era la libertà di non avere rotture di scatole da parte mia, non parlo di richieste tipo portarmi alle feste, ma anche la libertà di non avere l’obbligo di occuparsi dei miei compiti, o di avere preoccupazioni sulla mia istruzione, o di dover aspettare anche solo un secondo per un mio ritardo, o la libertà di non dover avere discussioni di nessun genere con me.
La cosa stupefacente però, è che su questa differenza reale, non c’è mai stata dialettica, ne confronto.
Fin dall’età di credo 3 anni, ho sempre saputo che la libertà di mia madre dipendeva necessariamente e in modo direttamente proporzionale a quanto io fossi una rottura di palle.
Lo stesso ovviamente valeva per mia sorella.
Di base quindi, entro i limiti da lei fissati, ero libera di andare bene a scuola, mangiare educatamente, comportarmi impeccabilmente, e così via dicendo.
Se vogliamo riassumerla volgarmente vigeva il sacrosanto principio (ormai del tutto sconosciuto nell’era moderna, anche a LUI) che sono i figli che si adattano alle esigenze dei genitori e non viceversa.
L’uso del congiuntivo non è facoltativo in questa casa.
La faccenda su questo comandamento era seria davvero e lo è diventata talmente tanto nella mia vita che davanti alla donna o uomo più in gamba, più premiata, più geniale più influente del mondo, l’uso sbagliato del verbo provoca in me un automatico downgrade alla scala più infima e miserabile della società. Chiunque sbagli, assume ai miei occhi una totale e assoluta indifferenza e disprezzo (non che io ne sia immune eh…).
Semplicemente però, io non ce la faccio. E cosa più grave, si è radicata in me l’orribile pratica, me ne rendo conto, della correzione ad alta voce. Chiunque abbia davanti, senza accorgermene, viene corretto, e resta quindi per lo più interdetto, vista la mia posizione lavorativa e sociale di trascurabile rilevanza.
Nella vita bisogna saper perdere
Quest’ultimo, non a caso era, ed è il primo e l’ultimo.
Come un cerchio che segna la fine e l’inizio.
Nella vita bisogna saper perdere il proprio pezzo di libertà in favore di chi hai di fronte.
Nella vita bisogna saper accettare che qualcuno è meglio di te, e quel qualcuno non sbaglia i congiuntivi.
Ho in mente con esattezza maniacale, la prima volta che ho colto il senso della faccenda. Avevo credo 6 o 7 anni, partecipavo ad una gara di ginnastica artistica, il che per chi mi conosce, può dare il senso del ridicolo della situazione in sé.
Non ho grazia nei movimenti, non l’ho mai avuta, e soprattutto, non sono mai stata particolarmente esile e filiforme, cosa che la ginnastica, quanto meno per un senso estetico, impone.
Insomma c’era questa gara, credo fossimo anche fuori Roma, e ho il ricordo dell’assenza di mia madre. Nel rimaneggiamento a mio piacimento del ricordo (che nel mio caso è una pratica assodata e costante) è domenica ecco perché mia madre non c’è, perchè per il principio della libertà di cui sopra, è domenica anche per Lei. Ma sono quasi certa che non ci fosse nessuno dei due e che fossi andata con la maestra e basta.
Dicevo, la gara, tocca a me, entro in campo,goffamente sto per finire il mio esercizio senza “tecnicamente” nessun errore, quando la palla cade (sì era con la palla). E’ in quell’istante, che il mio stomaco va a fuoco, che le mani mi prudono di rabbia e vorrei semplicemente smettere e andarmene, è in quel preciso istante che mi ritorna in mente il primo comandamento.
Così finisco l’esercizio, e compostamente esco dal tappeto centrale. E mentre cammino spalle ai giudici penso: “Menomale, pensavo di non saper perdere, invece, sono stata bravissima”.
Da quando ho diritto di voto, non ho problemi a dichiararlo, sono sempre stata un’elettrice di centro destra, anche di destra e basta, senza il centro. Questa volta, ma anche la scorsa volta 5 anni fa per le elezioni del Sindaco di Roma, per una serie infinita e del tutto personale oltre che contestabile di ragioni, non ho voluto votare il candidato di destra che, ne sono stata testimone, ha delle serie difficoltà nell’uso del congiuntivo.
Desiderio: vorrei tanto che chi lo ha votato, e quindi ha perso, avesse avuto la mia come madre, per non dover assistere al comportamento e alle parole di chi, per l’appunto, non sa dove finisce la sua libertà, non usa correttamente i congiuntivi ove richiesto e non sa perdere come tutti dovrebbero saper fare.