Spesso e volentieri, complice sicuramente la difficoltà nel reperirli, alcuni film che hanno goduto di un discreto successo all’epoca loro vengon quasi dimenticati, per non dire taciuti, dagli attenti compilatori dei dizionari cinematografici dei giorni nostri.
Volendo andare alla ricerca de La zia smemorata, una pellicola del 1940 diretta da Ladislao Vajda e sceneggiata da Andy di Robilant, su un affidabile compendio come il MORANDINI, ci si accorge ben presto che non solo il film non è recensito ma addirittura non figura nemmeno tra i lungometraggi realizzati in quell’anno. Una nemesi davvero un po’ esagerata per una commediola godibile e non priva di arguzie di genere.
La storia è quella tipica della commedia degli equivoci: ci sono due amici, l’avvocato Alberto Moretti (Carlo Campanini) e l’ingegnere Paolo Ravelli (Osvaldo Valenti) che hanno l’abitudine di innamorarsi delle stesse donne. Ma Alberto è da poco fidanzato con Maria Giusti (Nelly Corradi), una ragazza graziosa e posata che ha una zia ‘picchiatella’ (Dina Galli) – uno dei titoli che si volevano dare al film, in prima istanza, era proprio La zia picchiatella, – la quale dimentica tutto, o fa mostra di dimenticare tutto, e ingarbuglia situazioni apparentemente semplicissime.
Ravelli se ne va’ a Santa Maura, tra le “montagne d’Abruzzo” (difficile non pensare, qui, alla Capracotta del futuro Conte Max con Sordi e De Sica), a passare qualche giorno di vacanza agostana: nel rifugio si ritrova insieme ad una donna (Alanova) che, per sfuggire ai gendarmi che la inseguono, gli dichiara di essere Maria Giusti, la fidanzata del suo migliore amico (che lui non ha ancora mai vista). Al ritorno a Tivoli, Ravelli va a cercare la fidanzata dell’amico asserendo di esser stato in montagna con lei, scatenando le gelosie del povero Alberto che trascina tutti in un viaggio in treno alla ricerca della misteriosa donna che si è spacciata per la sua fidanzata.
Il viaggio terminerà, tra un equivoco ed un gesto galante, in un hotel di lusso di Rimini dove la bella ballerina ricercata è scritturata come danzatrice e dove, grazie ad un forzoso viaggio insieme, Maria scoprirà di preferire il fascinoso e generoso Paolo al sospettoso e pedante Alberto.
Si diceva della zia smemorata: come si evince bene dal titolo, è lei il fulcro ed il perno di questa leggera commedia che si basa quasi del tutto sulle prove di attori come la Galli, appunto, ma anche Campanini e, soprattutto, Osvaldo Valenti.
E’ Valenti infatti, sulle prime, a catturare l’attenzione del pubblico: attore a quell’epoca in lieve declino, aveva furoreggiato tra le spettatrici degli anni ’30 per il suo charme e i suoi modi spigliati e accattivanti.
Se questa zia smemorata non fa che dimenticare le cose (“Maria? E dov’è andata Maria? Come, a Firenze da nonna Orsolina? E io che ero sicura di aver assistito al funerale, di nonna Orsolina…”), vien subito chiarito che spesso lo fa di proposito, già presaga della cattiva sintonia tra Maria e Alberto, in questo apparentabile a svariati personaggi femminili austeniani che dedicano la loro vita di zitelle all’arte del perfetto match-making.
Valenti non è mai eccessivo, pur considerata la vita di eccessi che conduceva, ed anzi restituisce un’interpretazione pienamente riuscita, anche se spesso tinta di una certa malizia dovuta a quella sua naturale espressione talvolta un po’ luciferina.
Il quid di mistero lo introduce Alanova, al secolo Alice Allan, già ballerina di Diaghilev imprestata al cinema e scritturata dal marito produttore e sceneggiatore Andy di Robilant. Sebbene le scene di balletto siano forse un poco risibili, alla luce degli standard di oggi, resta il fatto che Alanova compie bene la missione affidatale di introdurre nel film un pizzico di esotismo che ben si addice al suo personaggio di donna misteriosa e in fuga (e del resto, un anno dopo sarà Surama ne Le Due Tigri di Simonelli).
Il vero punto forte del film, tuttavia, è la sceneggiatura. Carica di battute spesso brillanti, come ci si aspetta dal genere, non disdegna riferimenti dotti: da un lato, una allusione alla libbra di carne del Mercante di Venezia, da un altro, un più prosaico richiamo al cinema d’allora con una frase che sembra presa di peso da Rebecca di Hitchcock, segno che anche nell’Italia fascista i film stranieri, qualcuno, li guardava.
Ma il pregio più inaspettato e forse più appagante per lo spettatore moderno riguarda proprio il contesto di riferimento della pellicola: film di regime, perché altrimenti non poteva essere, all’osservatore acuto non sfuggirà che si tratta al medesimo tempo di un film contro il regime che utilizza ironia e amnesia come antidoti alla stolida ottusità governativa.
I due gendarmi alla ricerca della bella Alanova sono i personaggi più insulsi del film, persino più insulsi del cameriere del rifugio montano Taddeo che ripete sempre e solo questa frase: benvenuti, questo è un posto bellissimo, molto pittoresco, un vero angolo di paradiso. I due gendarmi vengon presi in giro da tutti, in un modo o nell’altro: da Taddeo, apppunto, che li accoglie al rifugio con la frase che riserva ai turisti; dalla ballerina che riesce a gabbarli e a fuggire; da Valenti che li canzona per tutto il film (e anche nella vita, Valenti, problemi colle autorità fasciste li aveva avuti, pur finendo poi fucilato dai Partigiani nel ’45).
“Venga Lei, non son tempi di inscenare false identità, questi”, dice uno dei poliziotti alla bella Alanova e tanto basta per ricordarci che l’Italietta delle mille lire al mese sta solo nei film e che siamo già in tempo di guerra, quantunque il cinema cerchi di farcelo dimenticare.
La chiusura finale è degna di Billy Wilder, regista con cui Vajda aveva cominciato a lavorare in Ungheria, quando era alle prime armi: scoperto che Maria ama ora Paolo, il ‘povero’ Alberto se ne va sconsolato dicendo “Per me, le donne, sono un capitolo chiuso”, salvo poi aprire la porta della stanza ed essere letteralmente assalito da una torma di bionde romagnole che lo hanno scambiato per un produttore del cinema e vogliono da lui una parte in un film.