Basta poco, per creare una psicosi. Anzi pochissimo, se si usa Internet e, più in particolare, i social network. È sempre la stessa storia. Qualcuno lancia un allarme, grida un “al lupo, al lupo!” virtuale, magari accompagnato da presunti risultati di ricerche, o da dati più o meno realistici. Non c’è neppure bisogno che le tesi siano bene argomentate, o che seguano un senso logico. Basta che sia presente, assolutamente necessario, il tono apocalittico, e che venga suggerita l’immancabile paura dell’accerchiamento, dove il singolo individuo è lasciato solo, contro realtà grandi, potenti e malvage. Si lascia intendere una atmosfera agghiacciante. Il raggiro ai danni del cittadino. La circonvenzione di utente. Il grande complotto, la cospirazione globale, dove o combatti, e sei tra i buoni, o subisci, e sei o stupido, o peggio collaborazionista dei cattivi. E le istituzioni preposte a controllare, a tutelarti, a metterti in guardia, ti abbandonano, sono incapaci e inefficaci, anzi sono conniventi, corrotte, hanno anche loro un ruolo nel grande disegno contro di te. È la battaglia tra bene e male, poco importa se il concetto risulta un po’ – giusto un pochino – manicheo.
Non serve molto, per impressionare – e convincere – il cosiddetto “popolo del web” (definizione ormai abusata, anche a causa di un certo movimento politico). E poi, in fondo, su Twitter basta un semplice retweet, senza neppure approfondire, mentre su Facebook è ancora più semplice: click, mi piace; click, condividi in bacheca. Se poi proprio si vuole compiere uno sforzo, si aggiunge qualche riga, così da alimentare l’allarme: “Condividete tutti”; “Spargete la voce”; “Pazzesco”. Difendiamoci da noi, perché i media – tutti di regime, s’intende – non ci danno retta, i giornali non ne parlano, e nessuno si scandalizza. Fight the Power! E via con la catena di Sant’Antonio versione social, con buona pace delle mail sulle scie chimiche e sui bambini che necessitano trasfusioni. Perché, insomma, se quanto scritto è vero, è bene diffonderlo e informare quante più persone ignare possibili; e se non dovesse essere vero, perché dovrebbe rappresentare un problema mio? Lo smentiranno altri, ma è sempre meglio diffidare comunque.
Avanti con la psicosi collettiva, via libera all’isteria di massa, senza limiti. E così, paradossalmente, i paladini della libertà, della vera informazione, dei complotti smascherati, creano un raggiro (vero) con l’intenzione di volerne denunciare uno (inesistente). Negli anni, la rete ha incontrato decine di bufale, di diverse dimensioni ed entità. Mai, però, aveva avuto a che fare con la bufala radioattiva del tonno di Fukushima. La notizia risale agli ultimi giorni, e riguarda un allarme, impazzato su Internet e tuttora molto diffuso, relativo a un presunto “tonno radioattivo” proveniente proprio dalle acque vicine a dove accadde il disastro della centrale nucleare giapponese. “Controllate il tonno più economico che trovate nei supermercati, dove c’è stampato FAO 61 o FAO 71 è tonno proveniente dal mar del Giappone dov’è stata riversata l’acqua contaminata di Fukushima”, si legge nel testo che fa il giro dei social. “Molti produttori fanno inscatolare il tonno in località non sospette con etichette italiane o europee per non far capire che il pescato proviene dal Giappone. Controllate sempre il numero Fao”. Gli ingredienti per la psicosi, ci sono. C’è il tono allarmistico. La richiesta di mettersi in guardia. La truffa delle ditte malvagie che vogliono farci mangiare il tonno nucleare, spacciandolo per europeo. Manca solo l’immagine dei produttori di tonno che brindano, o si accendono un sigaro, per festeggiare del complotto riuscito, e poi c’è tutto.
Peccato, però, che non sia vero. Segnale fuorviante. Nessun pericolo. In primis, perché – si legge su AltroConsumo – “benché entrambe le zone FAO 61 e 71 corrispondano a zone di pesca localizzate nell’Oceano Pacifico, il Giappone rientra nella zona FAO 61 (e non nella zona FAO 71)”; quindi perché “l’indicazione della zona di pesca sulle scatolette di tonno non è obbligatoria, e infatti spesso non si trova”. “Sarebbe davvero assurdo”, scrive ancora AltroConsumo, “che un produttore di tonno ‘economico’ perché inquinato, si affrettasse però a indicare volontariamente sulla confezione la provenienza sospetta”. Non solo. Riporta il sito di settore “ioleggoletichetta.it” che “il tonno pinne gialle che è la tipologia di tonno venduto nei supermercati e confezionato in scatola o vetro è pescato nella zona 71 (Pacifico Occidentale Centrale – antistante Filppine, Papua Nuova Guinea, Indonesia e Australia del nord) o nella area dell’Oceano Indiano (zone FAO 51 e 57) caratterizzate da calde acque tropicali molto più calde rispetto a quelle della zona 61 dove non è presente questa tipologia di tonno per le temperature più fredde”. “La zona FAO 71 (il cui confine a nord dista 4000 km da Fukushima e quello a Sud raggiunge l’Australia) fornisce una buona fetta del tonno a pinne gialle (oltre il 60%) mondiale. Il tonno proveniente dalla zona 71 non è affatto ‘più economico’ di altri come invece si vuole far credere dai post allarmistici messi in giro. Il tonno a pinne gialle inscatolato e lavorato in larga prevalenza in Italia non è quindi presente nell’area 61 (quella che dall’artico arriva fino al Giappone) poiché predilige le acque calde tropicali che non sono tipiche dell’area antistante il Giappone”. Come se tutto ciò non bastasse, un utente ha provato a misurare il tonno “incriminato” con contatore Geiger, evidenziando la totale assenza di radioattività.
Insomma, una sconfessione a tutto campo che, punto su punto, ha confutato le tesi un po’ grossolane del post, alle quali hanno risposto – d’ufficio, come vuole la prassi – anche diverse aziende coinvolte, da Coop a produttori quali As Do Mar e Nostromo, che giustamente vogliono tutelarsi e, per quanto possibile, scongiurare eventuali danni d’immagine e cali nei consumi dovuti a timori ingiustificati e, come dimostrato, senza fondamento alcuno. La quasi immediata smentita, da parte di tutti i portali dei consumatori e dei siti specializzati, tuttavia, non ha impedito alla isteria di propagarsi su Facebook, e la verità, a quanto pare, ancora non ha soppiantato la notizia infondata. Basta poco, anzi pochissimo, per creare una psicosi. È più difficile, invece, interromperla, e fermare il serpeggiare di una bufala, specie quando è radioattiva.