di Touchstone – Officina dei Talenti
A cena a New York, a pranzo a Londra o a colazione a Singapore, il messaggio degli amici italiani all’estero è sempre lo stesso. Perché non abbandonare la nave? Perché intestardirsi a lavorare in Italia? In effetti, ormai è chiaro. Il paese si trova di fronte ad una crisi drammatica. La peggiore da oltre un secolo. Peggio che negli anni trenta del ventesimo secolo, dove pure si dovette creare l’IRI per salvare il patrimonio industriale del paese e peggiore della crisi petrolifera del 1974. Nel periodo 2009-2012 il PIL si è contratto del 7 per cento e forse entro la fine del prossimo anno saremo in vista di quota dieci per cento. Non era mai successo prima. Al massimo durante la grande depressione degli anni 30 eravamoarrivati al meno 5 per cento. Stiamo quindi vivendo dei tempi straordinari che richiederebbero audacia di pensiero e di azione. Invece assistiamo al ripetersi stancamente di parole d’ordine ormai logore come: riforma del mercato del lavoro, priorità all’occupazione giovanile, investimenti pubblici, deficit spending.
Sfatiamo alcuni miti. Non è vero che la produttività del lavoro tedesca sia molto più alta della nostra. Non è vero che la consistente perdita di competitività del lavoro vs la Germania, pari a circa il 26 per cento dal 1999 al 2011, derivi soprattutto dalla bassa produttività e dall’aumento dei salari reali. In gran parte è dovuta invece al cuneo fiscale (che i tedeschi hanno ridotto e noi no), e soprattutto al differenziale di inflazione. Questi due fattori pesano per 16 dei 26 punti di differenza. Questo fatto, che andrebbe pubblicizzato a gran voce, ha alcune importanti implicazioni:
■ La riduzione dei salari netti reali NON serve per recuperare la competitività. Anzi, bisognerebbe aumentarli per stimolare i consumi.
■ La tanto invocata flessibilità dei contratti (per esempio, legare maggiormente salari alla produttività) NON è determinante per il recupero di competitività del nostro sistema manifatturiero.
■ Abolire l’articolo 18, liberalizzando del tutto i licenziamenti, NON è la chiave per il recupero di competitività del sistema produttivo. Anzi nel breve produrrebbe un’ondata di licenziamenti e aggraverebbe la recessione.
Certo semplificare le regole del lavoro e’ utile. Combattere la precarietà è doveroso. E’ bene però tenere presente che le regole del mercato del lavoro non creano lavoro. Solo degli economisti del lavoro possono pensarlo. I nuovi posti di lavoro sono creati da imprenditori che vedono opportunità di aumentare la produzione perché ritengono di poter vendere con profitto i beni ed i servizi prodotti.
Torniamo quindi al tema dello sviluppo. Il sogno nel cassetto di molti (quasi tutti) i politici è di aspettare le elezioni tedesche e poi, finalmente, riaprire i rubinetti della spesa pubblica in barba ai vincoli europei. Personalmente ritengo sia un “wishful thinking” destinato a svanire entro fine anno. Ma anche se così non fosse l’idea che basterebbe allentare le morse dell’austerità è pericolosamente illusoria. Illusoria, perché’ darebbe un po’ di ossigeno all’economia, ma senza affrontare gli altri problemi strutturali, tra 2 o 3 anni (e forse prima) ci troveremo al punto di partenza. Anzi peggio. Questo è il pericolo. Sarebbe come prendere un’aspirina che fa scendere la febbre ma che non affronta le vere cause della malattia.
La crisi dell’economia italiana non è un fenomeno passeggero, ma viene da lontano. I nodi di problemi strutturali non curati per decenni sono venuti al pettine. E’ possibile risolverli, ma per fare ciò occorre liberarci di una tassa occulta che pesa per oltre 300 miliardi sull’economia. Il peso delle rendite improduttive. Si badi bene non si parla dei dipendenti pubblici – dove pure si annidano sacche di inefficienza a causa dell’alleanza perversa tra burocrazia e sindacati che ha impedito ogni tentativo di modernizzazione della PA – il cui costo nell’ultimo decennio è calato. Non è dal pubblico impiego che si troveranno le risorse per rilanciare il paese. Dove sono quindi le rendite che ci stanno strangolando? La spesa per acquisto di beni e servizi della PA è aumentata di due punti di PIL nell’ultimo decennio, oltre 30 miliardi l’anno di extra spesa, spesso derivante da incuria o corruzione. Per investimenti, in gran parte in infrastrutture, spendiamo in media un punto di PIL più della Germania, sono oltre 15 miliardi l’anno di extra spesa, non sembra con grandi risultati in termini di competitività del paese. Il differenziale di inflazione tra Italia è Germania è di un punto l’anno. Una tassa implicita di 90 miliardi in dieci anni sui datori di lavoro, senza che questo abbia comportato maggiori redditi reali per i lavoratori. Ovviamente inflazione che si è generata nei servizi regolati e non nei settori che competono sul mercato. Ad esempio nelle assicurazioni auto (Italia +48 per cento, Germania meno 0,5), nelle autostrade, nella raccolta rifiuti, nelle banche, nell’acqua. E ancora l’evasione fiscale, 150 miliardi l’anno, che pesano per lo stesso ammontare su cittadini e imprese oneste e rendono più difficile progettare il futuro ed investire in sviluppo.
E io pago!Questa è la linea di faglia. Questa è la madre di tutte le battaglie riformiste. La qualità dell’allocazione del capitale è ciò che consente ad una economia di crescere e progredire. Trasferire cento, duecento miliardi di risorse dalle rendite aiceti produttivi nella forma di migliori servizi pubblici e minori tasse. Vasto programma. Ma l’unico che può consentire di riprendere a crescere al 2 per cento l’anno, di generare almeno 200.000 nuovi posti di lavoro nel settore privato ogni anno per cinque anni e di rendere sostenibile il debito. Senza questo programma ci aspetta un default sul debito pubblico ed un futuro di miseria per i nostri figli.
Nei seguenti articoli linkati esploro quali sono le riforme da attuare su: