Sta destando scalpore la sentenza emessa dalla più alta autorità delle telecomunicazioni turca (TIB), che ha deciso di bloccare Twitter, il più grande sito di “microblogging” al mondo.
Twitter aveva assunto un ruolo cruciale in una recente vicenda politico-giudiziaria che aveva visto coinvolte in episodi di corruzione numerose personalità del governo Erdogan e degli ambienti economici e politici del paese.
Il caso, passato quasi del tutto inosservato sui media occidentali, aveva suscitato scalpore in Turchia, e portato all’arresto 24 persone, e mentre sui media tradizionali turchi venivano riportati solo i dettagli più importanti, sui social media avevano iniziato a circolare intere conversazioni e intercettazioni dei soggetti coinvolti nello scandalo, tra cui il figlio dello stesso primo ministro, Recep Tayyip Erdogan.
Diversi tribunali avevano condannato, in tempi record, i siiti “chiacchierioni” ma la velocità della rete aveva vinto sulla carta bollata dei tribunali di Ankara, rendendo di fatto impossibile fermare il flusso di informazione che viaggiava tra Twitter e Facebook.
Rendendosi conto della difficoltà di affrontare uno strumento così potente, come la rete, le autorità non hanno fatto altro che dare seguito a una decisione che era già stata presa (ma mai applicata) in passato: bloccare completamente il sito.
Ad oggi la maggioranza degli account risulta inaccessibile, se non tramite l’utilizzo di alcuni escamotages informatici, che stanno permettendo a qualche attivista di continuare a “twittare”.
E’ chiaro che mai ci si sarebbe aspettati di veder bloccato un social network in una democrazia come la Turchia. Ma è proprio sull’aspetto “democratico” della vicenda che è possibile, e forse addirittura necessario, soffermarsi un attimo.
La Turchia è una democrazia, a tutti gli effetti. Il governo di Erdogan, sebbene in forte calo di popolarità, ha ricevuto l’approvazione popolare non in una ma in più occasioni elettorali, sia nazionali che locali. L’autorita della telecomunicazione e i tribunali locali rappresentano altresì strumenti di controllo politico, giudiziario ed economico che godono di una legittimazione popolare. Qualcuno li ha eletti, o qualcuno li ha nominati forte di una legittimazione democratica antecedente.
Questa situazione rappresenta il vero paradosso della democrazia, che, senza scomodare Popper o altri grandi pensatori della storia, ci pone di fronte ad un eterno quesito: è più importante la libertà o la democrazia?
Per secoli ci hanno insegnato che è la democrazia ad avere la priorità, su qualsiasi altro valore, principio o ideale. E’ anche vero che la democrazia ha generato veri e propri “mostri”. Leggi liberticide, che violavano e violano i principi di libertà che costituiscono il diritto cogente internazionale, ovvero quell’insieme di principi insindacabili, elaborati prima con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e messi poi nero su bianco da numerosi altri trattati e convenzioni.
Erdogan, eletto dal popolo, oggi ci fa vedere come la democrazia possa essere anche pericolosa. Lo stesso ne aveva subito gli stessi risvolti quando nel 1999, allora ex sindaco di Istanbul, venne condannato e mandato in carcere per avere letto una poesia in pubblico, colpevole di suscitare odio politico e religioso. Anche in quel caso non si fece altro che applicare una legge, proposta e approvata da un governo, e legittimata dal popolo.
Alla luce di questi esempi, si rivela indispensabile continuare con lo studio dell’analisi politica, al fine di trovare una forma di governo, o una variante di questa che garantisca partecipazione democratica ma che protegga quei diritti inviolabili sanciti dal diritto cogente, tra cui, appunto, la libertà di espressione e parola.
Elisa Serafini