Vita da caniUn tranquillo lunedì di paura

Se, come me, amate i cani, un'esperienza che prima o poi dovrete fare è quella di recarvi in un canile. La mia compagna fa volontariato ogni lunedì pomeriggio nel più grande di Roma e il 2 giugno m...

Se, come me, amate i cani, un’esperienza che prima o poi dovrete fare è quella di recarvi in un canile. La mia compagna fa volontariato ogni lunedì pomeriggio nel più grande di Roma e il 2 giugno mi ha detto “perché non vieni con me, così vedi che cosa faccio?”. Gia, perché no? Inizialmente ero terrorizzato: mi vedevo già gridarle “tieni il motore acceso”, forzare le gabbie, liberare una ventina di quadrupedi e fuggire con loro verso le campagne circostanti. Poi mi sono placato e ho accettato l’idea con entusiasmo. Ma ancora non sapevo che cosa mi stava aspettando. Anche perché ero fondamentalmente convinto che i canili fossero un posto drammatico in cui il cuore mi si sarebbe spezzato in almeno 15-20 occasioni.

Percorriamo la strada verso il canile mentre il primo caldo di giugno si fa sentire. Ma, mi dicono, vietatissimi i pantaloncini: e quindi si affrontano i 35° con i jeans. L’esperienza nasce sotto i peggiori auspici: a poche centinaia di metri dal canile si leva una colonna di fumo nero. Temo che stiano usando i cani come combustibile, ero certo che ci fosse del marcio nei canili. Scopriamo che si tratta invece del vicino campo nomadi in cui stanno bruciando dei copertoni. All’arrivo, per riuscire a entrare serve un doppio riconoscimento vocale che neanche sull’Air Force One. Finalmente riusciamo a convincere gli altri volontari che siamo “colleghi” e non adepti di Satana in cerca di vittime sacrificali. 

Riesco finalmente a entrare e mi rendo conto che il posto non è così terribile come me l’ero immaginato. Certo, è pieno di cani alcuni dei quali girano nervosamente per le gabbie sperando di uscirne quanto prima. Certo, l’abbaiare è un rumore di fondo a cui non ci si abitua neanche dopo ore. Ma, nel complesso, non sembra tanto male. La mia compagna mi richiama all’ordine: “Non sei assicurato, non puoi toccare niente, non puoi portare cani e se ti mordono sono affari tuoi”. In realtà, mi sembra che i cagnoni che vengono fatti pascolare nello spazio davanti al canile siano tutt’altro che pericolosi, ma mi tengo per me le mie considerazioni.

Mi rendo subito conto che i volontari si dividono in due categorie: quelli entusiasti di fare qualcosa di bello e gli invasati. Al secondo gruppo appartengono due ragazze che, da come si atteggiano, sembrano l’anello di congiunzione tra Konrad Lorenz e i Navy Seals: sanno tutto loro, hanno sempre la risposta pronta, conoscono in ordine alfabetico i nomi degli oltre 600 cani del canile. Ma, soprattutto, si scambiano sguardi carichi di significati, hanno un loro codice segreto fatto di lettere, numeri e parole ai più incomprensibili. “Vai in C7 e poi centrale13”. Che significa? Non è dato sapere. Durante una pausa sigaretta assisto impietrito alla seguente scena: una delle due volontarie invasate ha il guinzaglio un cane. Gli dice di sedersi, si fa dare la zampa, le solite storie. Se non che a un certo punto si mette in bocca un pezzo di wurstel – giuro – e chiede al cane di prenderlo delicatamente dalle sue labbra. Il cane è quasi più imbarazzato di me, guarda dappertutto, cerca qualcuno che possa salvarlo da quest’incubo. L’invasata dopo 3 minuti di tentativi molla il colpo dicendo “ci arriveremo piano piano”. Mi vede particolarmente perplesso e mi spiega che quello è il metodo universale per farsi rispettare da un cane. Non oso contraddirla, ci manca solo il pippone sotto il caldo.

Sbrigate alcune faccende, iniziamo a girare per le gabbie del canile alla ricerca di quei cani che nel mese siano usciti di meno e che siano sufficientemente docili. Ne troviamo un primo, che prontamente battezzo con il nome di Pancrazio, che è simpaticissimo. Corre, annusa, scodinzola, abbaia. E’ il ritratto della felicità e noi ci sentiamo davvero utili. Riportato in gabbia Pancrazio, è il turno di un altro cane: nel box 71B ce n’è uno che nell’intero mese è uscito solo una volta pur essendo nell’elenco di quelli docili. Andiamo a conoscerlo. E’ tutto nero, anche abbastanza massiccio, ma quando ci vede scodinzola e capiamo che sarà un’altra bellissima passeggiata. Madornale errore.

Il cagnone nero ribattezzato Isidoro, esce dalla gabbia come una furia e la mia compagna (poco più di 40 kg) non riesce a tenerlo. Inizia ad abbaiare a tutti i cani nelle gabbie circostanti e, soprattutto, infila il naso dentro una di queste per sfidare un molosso. L’ho già detto? Madornale errore. Io che non posso fare nulla perché non sono assicurato, vedo che il “nostro” cane sembra rimanere impigliato nella gabbia. Cane e compagna sono qualche metro più avanti: vedo delle strane strisciate di sangue. Chiamo la mia compagna ma il frastuono degli abbai copre tutte le voci. Mi avvicino e vedo che il naso del cane perde copiosamente sangue. Tragedia. Succede tutto in un attimo: arriva l’invasata (che probabilmente fiuta il sangue come gli squali), inizia a dire cose che non comprendo, ci dice di cercare un terapista, ma quello simpatico che l’altro non va bene. Continuo a non capire. Arriviamo davanti a quello che sembra un piccolo pronto soccorso canino. Esce una ragazza corpulenta – ma molto gentile – che dice di occuparsi solo dei gatti ma che per il cane ferito farà un’eccezione. Accorrono altri volontari appartenenti sia al gruppo degli entusiasti che a quello degli invasati: i primi si riconoscono perché sono molto dispiaciuti per il cane, i secondi perché stanno discutendo del decorso e della terapia. Un geniale invasato decide che il modo migliore per far stare fermo il cane è praticamente imbrigliarlo, in modo da poterlo medicare.

Il nostro Isidoro, che è buono ma non cretino, inizia a divincolarsi come Holyfield da Tyson. Fortuna che prevale la dottoressa-dei-gatti, che sentenzia: ora lo disinfetto, non è niente di grave, ma gli resterà la cicatrice. La cicatrice? Mi sento in colpa come raramente in vita mia. Inizio a fumare nervosamente e mi riprometto di non mettere mai più piede in canile, ché, in fin dei conti, è un luogo in cui i cani soffrono. Anche per colpa mia. A ripensarci a mente fredda le mie responsabilità sono pressoché nulle, ma tant’è, sul momento, mi sono sentito come Ted Bundy. Mi sono seduto in un angoletto meditando su come espiare le mie colpe, la faccia è quella che vedete qui sotto. La prossima volta che mi propongono di andare in canile, mi do alla macchia. 

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